Direttore: Fabio Marri

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Fabio Marri

Fabio Marri

Probabilmente uno dei podisti più anziani d'Italia, avendo partecipato alle prime corse su strada nel 1972 (a ventun anni). Dal 1990 ha scoperto le maratone, ultimandone circa 280; dal 1999 le ultramaratone e i trail; dal 2006 gli Ultratrail. Pur col massimo rispetto per (quasi) tutte le maratone e ultra del Bel Paese, e pur tenendo conto dell'inclinazione italica per New York (dove è stato cinque volte), continua a pensare che il meglio delle maratone al mondo stia tra Svizzera (Davos e Interlaken; Biel/Bienne quanto alle 100 km) e Germania (Berlino, Amburgo). Nella vita pubblica insegna italiano all'università, nella vita privata ha moglie, due figli e tre nipoti (cifra che potrebbe ancora crescere). Ha scritto una decina di libri (generalmente noiosi) e qualche centinaio di saggi scientifici; tesserato per l'Ordine giornalisti dal 1980. Nel 1999 fondò Podisti.net con due amici podisti (presto divenuti tre); dopo un decennio da 'migrante' è tornato a vedere come i suoi tre amici, rimasti imperterriti sulla tolda, hanno saputo ingrandire una creatura che è più loro, quanto a meriti, che sua. 

17 settembre – Da ieri a oggi, 15 gradi in meno, terra bagnata, alberi profumati, e per noi podisti di rango medio-basso è tempo di lasciare le canotte e partire con le mezze maniche, anche alle 16 quando è prevista, sotto il sole e un cielo quasi limpido, la partenza di questa gara ormai classica.

A occhio, saremo un centinaio al via regolare, ma le iscrizioni dichiarate sono 240 (50 in più di sabato scorso a Sassuolo), e molti camminatori sono già andati, non volendo rinunciare al percorso collinare panoramico di 9 km (in realtà 8), con oltre 200 metri di dislivello nella salita verso Villabianca: paesello dove era posto il traguardo di una gara a cronometro da Castelvetro, molti anni fa, e dove pure si passava in una delle primissime corse della provincia, Da la zresa al lambrusc ossia da Vignola appunto a Castelvetro, giugno 1972.

Uno dei reduci di quella gara, il vignolese Bruno Monelli, è presente come sempre; come non può mancare Lucio Casali (se non c’è lui, quasi quasi la gara non si fa: lo vedete chiudere il gruppetto nell’immagine di copertina scelta da Mandelli per il servizio fotografico, dietro il compagno di squadra Paolo Cavazzuti); ed è sceso dai suoi monti perfino Micio Cenci, che inalbera la maglietta un po’ sbiadita della trail-marathon del Liechtenstein dove fummo assieme … soltanto 13 anni fa. Penso che non gli dispiacerebbe l’appellativo di Formica Atomica, che il Corrierone ha rispolverato impropriamente per la ginnasta (ehm) Sofia Raffaeli, ignorando un certo Sebastian Giovinco (ma se i giornalisti sapessero le cose che scrivono – diceva un antico sindaco e uomo di sport di Vignola – non avrebbero più niente da scrivere).

Ovviamente al completo le famiglie di Paolino Malavasi, del citato Cenci, di Simona Rossetto (quasi tutti in foto 5), dei Vecchié, dei Bellentani, dei Valentini e della sempre sorridente Sonia Del Carlo, e chissà quante altre in comunione affettiva e sportiva; da Sassuolo è venuta in bici Cecilia Gandolfi (“sono solo 24 km!”: foto 2, e foto 3 con Micio), non imitata quanto a mezzo di trasporto dalla sorella Margherita e dal coniuge Italo, che da automunito mette però a disposizione alcune delle sue foto (nella didascalia non c’era posto, ma credete che delle 22 foto in Gallery, 5 sono sue). Per tutti, il rientro a casa avviene in tempo utile per assistere alla vittoria al 93’ del Sassuolo a Torino: e che Urbano Cairo vada pure a farsi consolare da Lilly Gruber e Giovanni Floris. Dal reggiano, i fedelissimi Paolo Giaroli (foto 6) e Simona Garavaldi: anche la loro mancanza indurrebbe seri motivi di riflessione negli organizzatori. Ma c’è perfino una presenza germanica, Frau Lieber aus Berlin-Dresden, innamorata del nostro Muratori e un pochino anche di Ludovico Castelvetro.

Il giro, ripeto, è un classico, ma resta sempre bello, perlomeno nei primi 6 km, col culmine per i buongustai al km 4,7, quasi al culmine della salita, dove la fattoria Roli (foto 17) ha allestito un ristoro dove il Principale versa personalmente nei bicchieri dei podisti il suo squisito Grasparossa. Rambo lo disdegna, ma io ne prendo due sorsate, e Giaroli, che nella salita mi era rimasto un po’ indietro, dopo averne bevuto un bicchiere (cardiotonico ideale) trova immediatamente la forza di raggiungermi e fare con me, alla media complessiva di 7:15/km, il resto del tracciato (gli ultimi 2 km sono cambiati dai tempi d’oro, e sinceramente meno godibili), rievocando glorie del passato e rivolgendo un grato ricordo a Giancarlo Bellodi, co-fondatore mezzo secolo fa della Sgambada di Mirandola, e scomparso da pochi giorni. A noi vecchi habitués si aggiungono alcune gradevoli presenze giovanili di sesso femminile (si può dire ancora, o contraddice qualche legge di correttezza politica prescritta nel contemporaneo festival filosofia?): sembrano due veline, una bionda e una mora, quelle che ci arrivano appena davanti.

Si termina nell’impianto sportivo, certamente la ressa è minore dei tempi antecovid (credo sia la prima volta che trovo parcheggio nella piazza antistante), ma siamo certamente di più di quella volta che una guerra interfrazionale mise in svolgimento contemporaneo un’altra gara nella vicinissima Solignano. Iscrizione al nuovo “tetto” di 2,50, pacco gara di biscotti e pasta, oltre a buono sconto per acquisto di sottaceti e altre confezioni: la sagra del lambrusco (anticipata di una settimana causa elezioni) ha prodotto qualcosa di positivo anche per noi pedatori. Sperando che la prossima volta il signor Roli, vista la quantità dei concorrenti, debba stappare qualche bottiglia in più.

10-11 settembre – Il fine settimana modenese, come sempre minacciato da un maltempo che sta solo nelle Sacre Scritture dei Corazzon e Bruscagin, è parso insolitamente ricco di offerta nel campo delle non-competitive o (come le si chiamavano nei primi tempi, “maratone popolari”). Correre al sabato e domenica era cosa che capitava prima del Covid; e stando al calendario, andrà ancora meglio nella settimana appena cominciata, con appuntamenti nel modenese mercoledì, venerdì, sabato e domenica.

Ma forse gli indigeni non se ne danno ancora per intesi, cosicché i numeri stentano a decollare; oppure bisognerà rassegnarsi a quantità meno reboanti: un po’ come i giornaloni che si sono adattati a vendere 150mila copie al giorno se va bene, mentre vent’anni fa arrivavano a 700mila, eppure nei talkshow continuano a pontificare come facevano vent’anni fa; e Massimo Giannini, romano costretto a tifare Juventus per ossequio alla Razza Padrona, buca lo schermo a getto continuo senza far sapere che da quando è direttore la sua testata vende diecimila copie in meno, e rispetto a otto anni fa ha dimezzato la tiratura.

Insomma, mal comune mezzo gaudio; o piuttosto, rassegnamoci che le vacche grasse, se mai ci sono state, adesso sono alquanto dimagrite; anche le vacche podistiche.

Eccoci comunque, fiduciosi, sabato 10 alla periferia nord di Sassuolo per la quarta edizione del Corri in Croce Blu (ripresa dopo chissà quanti anni di interruzione), che ripercorre le zone di un’antica gara abbinata a un festival del giornale oggi arrivato alla fatale quota di zero lettori, e in un certo senso prende le veci di un’altra corsa, a breve distanza, abbinata a una sagra parrocchiale, e che addirittura si permetteva il lusso di un Brighenti speaker.

Adesso fa quasi tutto la famiglia Casolari con la podistica Sassolese, ovviamente col supporto dell’associazione cui è intitolata la gara, e basta un altoparlante a pile per comunicare l’essenziale.

Le 15,30 sono decisamente presto per correre in questa stagione, e all’orario ufficiale saremo, a dir molto, una cinquantina. Da elogiare il fermo proposito di non propinare il ristoro finale né distribuire il premio-gara prima che sia trascorso un quarto d’ora dal via: è il minimo sindacale per arginare il malvezzo dei giri attorno all’isolato camuffati da corse.

Il totale degli iscritti arriva a 190, stesso numero della Badia bolognese del giorno prima: forse solo Lucio ha partecipato a entrambe. Da notare anche come la quota di iscrizione sia bloccata alla ‘vecchia’ cifra dei 2 euro, e i conti sono presto fatti: speriamo che l’austerity in arrivo lasci un angolino di futuro a iniziative benemerite ma un tantino tagliate fuori dai tempi grami.

Percorso gradevole, con un inizio trail fra le brughiere del Secchia e qualche montarozzo di detriti ora inerbati (comunque, meglio non scavare troppo dalle parti di Sassuolo); poi ci si instrada lungo la risaputa ciclabile di destra Secchia, ombrosa fino al casotto dove ante Covid natum si celebravano le spaghettate e grigliate delle società podistiche (sembra un’altra epoca, quando ci veniva Ermanno Fioroni, e tra i più attivi era Giuliano Lamazzi, volontario Pubblica assistenza, scomparso nel 2016 ed al quale oggi è intitolato il “Memorial”). Poi si gira a sinistra per il ritorno, un po’ più assolato, verso l’Ancora e la zona di partenza, con un totale di 6,7 km. Premiazioni di società impostate sul vino, e (come da antica tradizione) il Cittanova è il gruppo più numeroso.

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La truppa non agonistica e non trailer (per gli uni, in zona c’erano le 21 di Parma e di Guastalla, per gli altri le corse di Roteglia e del Lago Santo, su cui preannuncio una chicca da queste colonne) si dà appuntamento domenica mattina, allo strano orario delle 8,45 (8,15 per i camminatori), a qualche km da Campogalliano, per la 12^ Verdelaghi: bel giro grossomodo a forma di 8, prevalentemente sugli argini che separano le province di Modena e Reggio e avrebbero lo scopo di difendere il capoluogo geminiano dalle inondazioni del Secchia (ogni tanto ci va sotto qualche casolare o trattoria della zona, come è sempre stato dai tempi in cui l’argine verso città era regolarmente più alto di quello verso campagna).

Qui gli iscritti sono 650, una bella cifra – direi, la più alta in provincia di tutto l’anno – anche se è meglio non pensare a quanti erano appena tre-quattro anni fa; la quota è passata ai 2,50 euro, come il Coordinamento, obtorto collo, lascia liberi di fare. Non tutti i partecipanti espongono il pettorale, ma abbiamo fiducia che l’abbiano “sotto” (sebbene Gelo Giaroli, che in qualità di bancario sa fare i conti, stima in un centinaio il numero di quelli che si aggirano a sbafo). L’organizzazione è in mano a Gabriele Gualdi e ai suoi, e funziona egregiamente, anche se i parcheggi sono sottodimensionati (per colpa del comune, mica di Gabriele) e costringono chi arriva in auto a una camminata supplementare.

Dei “sassolesi” di ieri rivedo Lucio (anzi, ripeto che per lui è un triplete considerando la Badia di venerdì; mentre Giangi fa solo doppietta perché dopo Badia aveva saltato l’Ancora, dove il metanauto è passato, orrore, da 0,86 a 2,26 al chilo), Pivetti, Rambo Benassi, i coniugi Rossetto, Morena Baldini ed Elisa “Teidina”.

In più, arriva in tutto il suo splendore non artefatto (a differenza della **) la supermaratoneta Greta Massari, 170 maratone ufficialmente riconosciute per un totale di 2650 km percorsi; poco dietro lei appare il consocio Mastrolia, 253 maratone accreditate, a torso nudo ma infinitamente meno sexy di lei (bisognerebbe però chiedere il parere all’altra metà del cielo).

A me fa istruttiva compagnia la presidentessa Emilia Neviani, che trascinandomi a 6’/km lungo i 10,900 del percorso ‘lungo’ mi informa sugli oneri ormai insostenibili per gli organizzatori (cominciati ben prima del Covid, con la circolare Gabrielli dettata dall’onda emotiva delle stragi islamiche in Francia e del caos alla mancata festa juventina per una Champions che non arrivò), sulle gare che alzano bandiera bianca, sulle tristezze per le persone che vengono meno: penso al dottor Franco Furini, medico condotto di Campogalliano, varie presenze a New York, e morto meno di un anno fa, a 67 anni, dopo un investimento subìto in bicicletta.

Sfilano altri ex protagonisti delle 42, ora appagati in più miti consigli: Fabietto da Castelfranco, Ivaldo e William (protagonista, per chi ha la memoria lunga, di uno sprint con Rossano Brevini sulla pista di Klagenfurt all’arrivo della maratona del Woerthersee). C’è anche Micio Cenci, finissimo costruttore di chip (magari, il vostro bancomat ne ingloba uno suo) che dopo tanti ultratrail italo-svizzeri adesso predilige le corse di nicchia, quelle snobbate che alla fine assommano 20 partecipanti; poi il vigile veterano Pavesi da Carpi, e infine Massimo Bedini che sfoggia una divisa da Interforze (a proposito, oggi anche Eugenio Di Prinzio calza le scarpette da corsa).

“Vai tranquillo”, Valentini, che anche oggi il premio del gruppo più numeroso lo incamera la tua Cittanova, con 98 iscritti, davanti alla storica casa-madre della Madonnina (con 60) e al giovane gruppo Run&Fun di Mohamed Moro (54).

Accontentiamoci di quello che viene, del domani non v’è certezza, e forsan et haec olim meminisse iuvabit.

9 settembre – Ci sono più aerei in cielo (avrebbe commentato Amleto se fosse venuto a questa “Badia in festa” 2022), di quanti podisti sulle stradette tra il fu-torrente Samoggia e l’aeroporto di Bologna. L’organizzazione dichiara 190 pettorali venduti, con primo posto di 37 iscritti della società bolognese del Monte San Pietro; alla partenza ufficiale delle 18,30 ci siamo contati in 19, uno solo della società “primatista”. In compenso c’erano il decano Righi del Pontelungo – la cui età si avvicina a quella di Queen Elizabeth, ma la forma è migliore -, il vicedecano Cuoghi che abitando alla Cavazzona qui potrebbe venirci di corsa come riscaldamento, il pivello Giangi che vorrebbe un pricecap al metanauto, e l’uomo-ovunque Lucio Casali da Formigine e dal Cammino di Santiago, che potrebbe forse ambire al titolo di chi viene da più lontano. I bolognesi di città e circondario, insomma, l’hanno data buca; se scendo ai ricordi dell’ultima volta che ero stato qui (2018, venticinque anni dopo la prima edizione cui pure avevo partecipato) mi sovviene il centinaio di presenti al via, che già erano meno rispetto ai tempi d’oro, quando si partiva dopo la benedizione dell’abate.

Oggi, in quest’anno 2022 di poca grazia, non solo non c’era l’abate, ma la chiesa era irrevocabilmente chiusa; e soprattutto, dal punto di vista podistico, mancava Colui che, fin quando era vissuto, aveva animato e gestito questa gara, intendo il già-presidente del coordinamento podistico bolognese, Angelo Pareschi. E mancava pure Alessio Guidi, che l’autolesionismo giustizialista e invidioso rappresentato dai vari MarcMaz e propaggini vesuviane tiene lontano dal mondo delle corse (solo che adesso, il podismo nazionale è deCarlMarcMazzato, nel senso che se Lorsignori si fanno vedere scattano le squalifiche per chiunque selfeggia con loro).

E allora, via per pochi intimi, in un tracciato di 7,3 km che ricorda un po’ altri di corse estive limitrofe di cui il Covid, la crisi del Partitone, la senescenza del movimento hanno fatto perdere le tracce (Calcara, Castelletto, Le Budrie…). Il giro sarebbe perfino godibile, al tramonto assolato di una giornata prevista da allerta meteo e che invece prelude all’avvento di una splendida luna piena: almeno metà è su fondo erboso o sterrato, tra argini e campagne. Il ristoro di metà gara prevede, oltre all’acqua, bicchieri con tre prugne Stanley (blu) ciascuno, prugne che ritroviamo al ristoro finale dove appare anche il tè (“sparso per molti ma non per tutti”, direbbe l’abate se ci fosse).

Sotto l’argine, che negli ultimi 2 km ci ripara dai raggi di un sole al pio colono augurio di un più sereno dì, reincontro due storici appassionati di questa camminata, Stefano Piazzi e il prof Ezio Bortolotti, mio scolaro antichissimo dei tempi – ci diciamo – di quando avevamo i capelli neri; al traguardo è invece già arrivato un altro decano del podismo bolognese, il Fregni da Persiceto detto Assantùn per il punteggio che suole conseguire a briscola.

Più affollata che la linea di partenza si rivela, dopo l’arrivo, la fila per la cassa del ristorantino: in mancanza di pacco-gara (la Madonna della Strada ci scampi dall’ennesimo mezzo chilo di pasta o da una confezione di tortine-Porretta) ogni podista può spendere qui l’equivalente della tassa di iscrizione. Scelgo di convertirla in gnocco fritto, losanghe grosse e soprattutto gustose che, farcite di prosciutto nostrano, rapidamente compensano le 575 calorie che il Gps mi segnala di aver bruciato, alla vertiginosa media di 6:15 a km.

1. Michele Rizzitelli, Una coppia da Guinness (Roma, agosto 2022): le quasi 400 pagine di un libro che in trenta capitoli scanditi annalisticamente dal 1994 al 2020 (più qualche capitolo di preambolo e un finale “per non concludere”) racconta duemila maratone o ultramaratone, non sono un traguardo raggiungibile da qualunque lettore; e viene da chiedere per chi il libro (diffuso dalle edizioni Albatros-Il Filo: https://www.gruppoalbatros.it) sia stato scritto, se per i maratoneti compulsivi oppure anche (come dicono gli accademici quando sfornano un testo commerciale) per le persone colte, diciamo curiose.

Quando e perché sia stato scritto, lo svela l’autore e demiurgo (nel senso che, malgrado il titolo duale, soggetto sceneggiatura e realizzazione sono irreversibilmente sue) verso la fine: dopo “la giornata più inutile della mia vita”, quella domenica 1° marzo 2020 passata sul divano perché tutte le maratone erano state annullate (bè, in realtà se ne fece almeno una, stile trail, in terra toscana non ancora raggiunta dai diktat governativi; ma è probabile che la coppia barlettana avesse puntato le sue carte sulla rinascente Bologna, fatta abortire dalla triade rossa Merola-Bonaccini-Speranza, lasciando così “l’antica Felsina unica a non aver mai avuto una vera 42,195”, come discutibilmente si sostiene a p. 270, in contraddizione con p. 135); quel giorno dunque, primo ufficialmente di una triste serie, dopo aver scaricato le pile del telecomando alla vana ricerca di un programma televisivo decente, il dottor Michele (da poco in pensione, dopo una vita dedicata al coscienzioso espletamento dell’arte medica) decise di mettere in prosa ‘ostensibile’ i suoi sterminati taccuini di appunti.

Per chi, poi? Difficile evitare, in tanti momenti, “il rischio di sconfinare nell’autocelebrazione”, ovvero il compiacimento di ricordare il primo posto di categoria lì e l’ovazione ricevuta là, la vittoria di coppia alla 24 ore di Termini Imerese, e insomma il (o i) Guinness sparati fin dal titolo. Personalmente, dalla prima visita fatta al Museo dei Guinness, all’Empire State Building nel 1990, ritengo che il Guinness non sia un elenco di record ma di stranezze: chi ha mangiato più uova a colazione o divorato la salsiccia più lunga in meno tempo, o magari chi ha emesso il rutto più durevole. Rischio che l’autore esorcizza con ripetute dichiarazioni di modestia, fin dalla pagina d’esordio (“gli studi di Medicina e Chirurgia richiedono non eccelsa intelligenza”), e soprattutto con una sorta di transfert verso la cara moglie Angela, “dolce e paziente”, ma “non tanto dolce di sale”, sposata nel 1991 dopo una apparizione tra l’onirico e il mitologico (p. 27), e una biciclettata galeotta (229): e lei sì gratificata di ogni tipo di elogi, che appaiono forse esagerati a chi non conoscesse il sacro peccato d’amore che li muove (e determina l’intero cap. 14, dove al “sig. Gargano” sfugge però che “dietro una grande donna c’è sempre un grande uomo”).

2. Come dice il sottotitolo (in copertina, non in frontespizio), Le nostre mille maratone, oggetto principale del libro è appunto il ricordo di mille (ultra)maratone per lui e altre mille per lei: non sono sempre le stesse, sia per le soste forzate dell’uno o dell’altra, per qualche infortunio o per i pochi inevitabili ritiri (ma il primo fu quello alla Nove Colli citato a p. 173 o quello dell’anno dopo a San Vito al Tagliamento, su cui p. 186?); sia soprattutto perché, salvo esigenze di “assistenza”, nella medesima gara ognuno dei due va col suo ritmo (che nel caso del dottor Michele – 3h34 dichiarati nel 2001 - è abbastanza dignitoso, quando si impegna: lo dice uno che in gioventù lo batteva quasi regolarmente, fino a quell’arrivo a Carpi in cui Michele lo sorpassò, chiedendo permesso, quasi in piazza Martiri; e adesso i sorpassi al passivo sono quasi la regola). E insomma, sorbirsi duemila resoconti, anche ripetitivi perché fatalmente molti percorsi sono stati affrontati decine di volte, e altri si riducono a semplici elenchi notarili (come le 9 maratone citate in due righe a p. 139, le 17 in 10 righe di 174-5, ecc.), non è impresa facile per il lettore, anche quello malato di maratonite (o maratonosi: chiedo al dottor Michele, che ogni tanto infiora la sua prosa con parolette impeccabili tipo episodi collassiali o sintomatologia algica o glomeruli renali o tenovaginite dei peronieri, se uno stato cronico possa appunto chiamarsi col suffisso -osi), e che fatalmente conosce buona parte dei luoghi descritti nel libro.

3. Per fortuna, il racconto – diciamo così – tecnico è talora felicemente soverchiato dalla descrizione dei luoghi, spesso accoppiata a note storiche o letterarie: non tutte-tutte a proposito (Teodorico non fu mai imperatore, come invece detto a p. 290; Dorando non è nato a Carpi - p. 52 - ma a Mandrio di Correggio; Durbans è un dentifricio e non una città come appare a p. 373; “le” Mauritius e “le” Réunion di p. 295 sono in realtà una in ciascun caso; la morte per Pavese di p. 332 non aveva “il colore” ma solo gli occhi della renitente attrice amata; l’amica che con Nietzsche frequentò il lago d’Orta non si chiamava Andreas Salomè come a 309, ma Lou Salomè coniugata Andreas); ma in molti punti tali da instillare davvero il desiderio di andare là, non solo per la maratona: fra le tante, penso alla Dublino letteraria (mentre per Berlino vedo che non c’è uguale entusiasmo bastando 2 righe a p. 354, e per Interlaken, l’altro mio personale top, ne servono solo tre a 158; laddove Parigi varrebbe la pena di una visita solo per la tomba del conterraneo Giuseppe De Nittis, mentre appare trascurabile la menzione dell’incendio di Notre Dame, in rapida dissolvenza a p. 359 a favore della Muraglia cinese); e ancora, si vorrebbe andare a Pantelleria sede di un Ecotrail, a Cormons e al suo Collio, a Mattinata e al Gargano, alla Reggia di Caserta, per non dire di località minori che si fanno scoprire solo quando organizzano una maratona (chissà com’è davvero l’architettura di regime a Borgo Incoronata di Foggia, tratteggiata a 305-6). Peccato che talora alla bellezza paesistica si accoppii il malcostume organizzativo, come si dice a p. 95 di Livorno (corsa nel traffico) e a p. 205 di Lecco, cui mancavano le medaglie e il ristoro finale erano “rimasugli per mendicanti” (ma non si dice la stessa cosa della prima Ragusa a 143-5, forse per una certa solidarietà meridionalistica che spesso vela realtà poco idilliche, e addirittura antepone a p. 160 l’estinta maratona di Agrigento a quella di Atene, e a 282 pone ai vertici la foggiana maratona-discount dell’Incoronata, e a p. 324 la 6 ore messinese di Capo d’Orlando, nella quale l’amata Angela fu “regina”). Ma va detto che anche la nordica Torino-Saint Vincent è detta “gran bella gara” (221), sia pur lasciandosi sfuggire che si corre nella notte abbagliati dai fari delle auto che sfrecciano a pochi centimetri: resta l’impressione che a volte i voti dipendano dalla simpatia goduta dagli organizzatori (e così, il lago d’Orta a p. 308 diventa il più bello d’Italia per merito di Paolo Gino). Né direi che la descrizione delle maratone nei deserti nordafricani, malgrado l’accattivante foto di copertina, invogli a fare questa esperienza; e forse nemmeno la 100 miglia a tappe sotto l’Himalaya, per non scendere alle tante corse o corsette “attorno al cortile di casa” (come si diceva qualche decennio fa), fossero anche la 10 giorni alias 1000 km, su un tracciato di 1000 metri nel vecchio aeroporto di Atene, cui sono riservate 11 pagine (250-261), prima di passare all’analoga esperienza nel cosiddetto Campovolo di Reggio.

4. Altre chicche o camei (come le chiamano rispettivamente gli speaker podistici e i critici di cinema) traspaiono qua e là, ad esempio nella descrizione impietosa, “da vicino”, del decantato cantore Gianni Morandi, dalla “capigliatura policroma per la tintura datata e la postura cifoscoliotica” (192); nel racconto dei concorsi per la specializzazione medica (68-71) o del 2 nello scritto di italiano all’esame d’ammissione alle medie (superato poi a settembre; si faccia coraggio Michele: anche il suo recensore di oggi, al ginnasio stentava il 6 nei temi, e nella carriera scolastica non ha mai preso più di sette; vent’anni dopo però, è stato chiamato a fare un corso d’aggiornamento su “come si fa un tema” a un gruppo di docenti, tra cui anche colui che alle medie l’aveva bistrattato); e ancora, nella “vera storia” di p. 340 sulla scelta dell’inno di Mameli.

Venendo al nostro tema specifico, ecco la ferma critica alla maratona di New York, che pure costituì l’esordio di Michele a 40 anni sulla distanza regina nel 1986, e “credo che quella mia partecipazione a New York abbia segnato la nascita della maratona di massa” – aggiunge l’autore a p. 25, con egocentrismo che suppongo preterintenzionale. Trovo più corretto dire che la trasferta a NYC nel 1986 (prima di varie presenze rizzi-garganiche sullo Hudson) fu lo specchio di un approccio alla maratona che stava cambiando, spinto da fattori commerciali e da esibizionismo individuale: Rizzitelli più oltre (326) definisce l'adunata alla Grande Mela “roba da novizi della corsa… tosati da intraprendenti agenzie”, con la complicità locale come nel 2012, l’anno dell’annullamento per maltempo (cfr. 275); gustoso l’accenno al “Narrows color paglierino” per le minzioni degli atleti appena partiti sul ponte di Verrazzano (la mia esperienza invece mi fa dire che nell’immenso prato d’attesa ci sono numerose toilette, oltre al largest urinator in the world, altra roba da Guinness). Anche di Tromsö, specchietto per le allodole minore ma pur sempre agitato, si dice che del decantato sole di mezzanotte non c’è “neppure l’ombra” (sic, p. 83).

5. Semmai Rizzitelli, sia come atleta sia come medico, è testimone in carne e tendini, e - diciamo pure - anche coautore della smitizzazione dei luoghi comuni medicali imperanti quando cominciò/cominciammo: la maratona sarebbe uno sforzo superiore ai normali limiti umani, e correrne un paio all’anno basta e avanza (una smentita a più alti livelli tecnico-mediatici è venuta, come sappiamo, da Calcaterra); senza dire dei mutevoli precetti alimentari, sui quali la coppia barlettana dei “cattivi maestri” (cap. 12) sorride, guarda e passa; come sorride sulle “facezie” di Piero Ottone “esponente della sinistra al caviale… amante di nobili panfili”, e per questo schifato dal plebeo sudore podistico (98).

Lo stesso esordio di Angela andò su questa direttrice, con la “doppietta” 30 ottobre-6 novembre 1994, da Acquaviva delle Fonti a New York (e nel passaggio dal 1999 al 2000 ci fu la doppietta in 24 ore, tra Assisi e Roma; nel 2004 si arrivò alle due in un giorno tra Pisa e Rimini). Due anni dopo l’esordio del ’94 si passò alla 100 del Passatore, che sebbene non sia “la più bella del mondo” secondo il luogo comune accettato a p. 49 (mai stati a Biel/Bienne?), ha visto i coniugi protagonisti almeno una decina di volte. Con amoroso puntiglio sono seguiti i record quantitativi di Angela, primatista italiana con 29 maratone nel 1999, detronizzata però dalla vicentina di Montecchio Renata Cecchetto (non bolzanina come detto a 105, equivocando sul suo temporaneo domicilio coniugale), e però definitivamente prima con le 100 del 2002, appaiate alle 100 di Michele, che attribuisce l’idea della cifra tonda al giramondo Mario Ferri (che a sua volta sta quasi completando il suo progetto di correre almeno una maratona in tutti gli stati dell’Europa, inclusi gli staterelli sorti dopo il 1989); e col raccontarle nel lungo capitolo 11 dà un po’ il capogiro di fronte alle tante 42 a circuito forzosamente affrontate per entrare, appunto, nel Guinness (eppure a p. 235 gli sfugge il sentimento di “essere condannato a girare come un asino attorno al pozzo”).

6. Oltre ai luoghi, il libro è una rassegna di persone, cui non si lesinano complimenti all’insegna del volemose bene (quasi una palinodia rispetto a giudizi un tantino meno riguardosi espressi - dico io, con buone ragioni - qualche lustro fa). Del mitico William Govi, “atteggiamento cifotico, non proprio a dieta”, si dice di aver voluto “attingere dai suoi pregi, evitando i suoi non pochi difetti” (54), e si sorvola sull’arrivo alla già citata Ragusa (o i tempi prodigiosi fatti registrare ogni anno a Scandiano in una maratona notturna con larga zona buia non sorvegliata), che getta qualche dubbio sui suoi conclamati record. Pure Beppe Togni è poco meno che beatificato a p. 88 (ma è giusto pubblicizzare, tacitamente confrontandolo col di-cui-sopra, il suo gesto di onestà sportiva a Ravenna, 102); commosso il ricordo di Sergio Tampieri, prima anima dei supermaratoneti (245), e c’è spazio per Luisa Betti (ultimamente celebre lippis et tonsoribus forse oltre le sue intenzioni), dispersa nel 2014 sui sentieri di Monte Sole (312-3; col suo stile un po’ troppo pindarico, Michele non dice come sia finita), ma nel 2018 vincitrice della 56 km in 10 giorni, ovviamente a Orta (che risulta la località più citata, con Amburgo, del libro), in quasi 60 ore, con 8 ore di vantaggio sul secondo, Paolo Saviello (d‘accordo, non stiamo parlando di Grete Waitz e Stefano Baldini). E c’è menzione pure per Antonio Rossi, il San Martino dei luoghi verdiani, che col suo mantello nel 1999 salvò la gara di Angela (67-8).

7. Avviamoci alla conclusione, coll’inverarsi del sottotitolo: secondo una certa numerologia cara a Michele (che per esempio fece marce forzate per raggiungere la sua n° 700 vicino a casa, nel giorno del 70° compleanno), era previsto che le 1000 maratone di entrambi (lui stava colmando le “sole” 13 maratone di svantaggio rispetto a lei) fossero raggiunte il 3 maggio 2020 prendendo il via dalla patria Barletta: ma solo 7 gare furono a disposizione dei tapini prima del lockdown, e per la ripresa si dovette aspettare l’estate, alla cui conclusione, il 10 settembre, toccò a lei raggiungere per prima il traguardo, incoronata dalla mamma a Policoro. Michele dovette concludere il suo itinerario, metaforicamente si direbbe “con l’imbuto” (8 gare consecutive a Policoro, 4 a Rieti per dare un’idea): e il 18 ottobre, a Pescara, raggiunse finalmente obiettivo e moglie, prima che un altro lockdown bloccasse di nuovo lo sport.

Conclusi questi obblighi autoimposti, la coppia potrà finalmente riprendere le amate crociere per il globo, già sperimentate in due occasioni che tuttavia non hanno impedito, nei mesi liberi, dalle 30 alle 50 maratone annue; ma senza fermarsi mai nemmeno in futuro, col limitarsi a essere più “selettiva”, ristretta alle gare “più belle o mai fatte” (è dunque sottinteso che questo impeto stakanovistico abbia portato anche a correre maratone “meno belle”, in numero maggiore rispetto a quelle indicate con la matita rossa e blu).

Dopo tutto, si tratta di scelte personali: qualche ‘giudice’ più pignolo dei signori del Guinness potrebbe chiedere i certificati di omologazione-misurazione di molte gare considerate valide per la ‘tacca’ (qualcuna più ‘artigianale’ delle citate, cui era presente anche il sottoscritto, secondo i Gps non raggiungeva i 40 km). Ma che importa? “Noi maratoneti – si dice a p. 298, per altro proposito – vendiamo la nostra prestazione usando la stessa tecnica dei commercianti nell’esporre i prezzi”: ufficialmente, ognuno crede all’altro; poi, girato l’angolo, gli si comincia a fare la tara.

8. Se dovessi dare il mio contributo (citando a memoria) direi anzi che al catalogo manchi una maratona, quella di Vigarano-Ferrara del 17 marzo 2002 (assente dalla p. 107 del libro): era una maratona abbinata a quella su pista disputata a Ferrara il 9 marzo precedente, che Michele cita e nella quale, primo di categoria, lo precedetti di una buona mezz’ora. Mi preparavo a completare il risultato dell’abbinamento (riccamente premiato in euro), quando il peggior attacco d’ulcera della mia vita, causato da 7 aspirine in 7 giorni per guarire un gran raffreddore, mi costrinse a letto proprio il giorno della rivincita, con ematocrito a 30 ed emoglobina a 10. Michele aveva la via spianata per il successo, che difficilmente gli sarà sfuggito (l’onore di famiglia fu salvato da mia moglie, prima donna classificata, che portò a casa 258 euro, insomma mezzo milione delle vecchie lire).

La rivincita sportiva (condita come sempre da rispetto e complimenti reciproci, e magari anche dalla messa frequentata in comune) arrivò nel 2015, alla 50 km San Gimignano-Siena, che l’autore magistralmente descrive alle pp. 318-320: qui segnai 5.40:12, mentre Michele dichiara 5.47:48, aggiungendo di essere stato “premiato come primo di categoria” (ma citando gli M 70, cui all’epoca non apparteneva essendo ‘solo’ sessantottenne, dunque nella mia stessa M 65 dell’epoca). Quid est veritas?, chiedeva Pilato; e se vogliamo abbondare con le citazioni, aggiungiamo pure amicus Plato sed magis amica veritas.

E non facciamone questione capitale: “sono solo maratone”, pesanti ad libitum, tanto quanto i pesci pescati nelle vecchie storielle sui pescatori. E ringraziamo il libro che le racconta, capace di evocare persone, panorami, affetti vissuti in quelli che inderogabilmente restano gli anni migliori delle nostre vite.

 

4 settembre – In un weekend molto affollato di eventi esotici, col caldo ancora estivo che invitava a puntare su percorsi montani, sono stati una novantina i partecipanti a questa gara, nata molti anni fa per iniziativa di Giuliano Macchitelli, poi passata a un organizzatore di lusso, oltre che atleta di vaglia, come Emilio Mori (che infatti sta sui conquibus al Maiale, nemico di ogni corsa agonistica dato che non può parteciparvi in quanto squalificato perpetuo).

Il teatro (o diremo la location, vista la presenza a Modena in questi mesi dei cineasti americani) è, come sempre, la pista ora asfaltata dell’ex ippodromo di Modena, sede un tempo della Fiera e di prestigiose corse al trotto, quando Sergio Brighenti da Castelnuovo di Sotto (dunque compaesano di Stefano Baldini) vinceva con Tornese e Delfo, e nelle giornate infrasettimanali un altro Sergio Brighenti, centravanti del Modena ma anche di Inter, Samp e Nazionale, si allenava sulla pista preceduto in bici dall’allenatore Scàggia Malagoli. Ippodromo il cui degrado è cominciato dall’intitolazione a Novi Sad, località gemellata con Modena al tempo in cui l’amministrazione comunale ci teneva a stringere gemellaggi progressisti esclusivamente di là dalla Cortina di Ferro; degrado che si tenta di arginare col mercato del lunedì, con l’arrivo una volta l’anno della “Corrida di San Geminiano”, e con l’orrenda denominazione di Novi Ark determinata dalla scoperta di una strada romana nei sotterranei (quando si costruì un parcheggio, non troppo apprezzato né utilizzato, ma che ha prodotto il magico effetto di mettere a pagamento tutti i parcheggi di Modena nel raggio di 2 km, con tariffe pari o più alte di quelle che si pagano scegliendo il “Novi Park”).

Cose che mi sono venute in mente quando ho pensato di mettermi in tenuta da corsa sui gradoni della vecchia tribuna dell’ippodromo; cosa impossibile, perché i due accessi erano sbarrati da cancelli con lucchetto, per scongiurare le abituali frequentazioni, anzi abitazioni: un annetto fa, un ennesimo responsabile di scippi, spaccio e simile (non dirò di che provenienza altrimenti mi accusano di xenofobia) fu condannato agli arresti domiciliari, e siccome dichiarò come suo domicilio la tribuna del Novisad, il giudice lo “arrestò” qui dentro.

Anche lo sport subisce queste cose, tentando di porvi rimedio come può: bene dunque questa iniziativa, malgrado la partecipazione certamente inferiore ai tempi in cui la gara si svolgeva di sera. E quanto alla sicurezza, uno sguardo discreto di garanzia ha saputo darlo la truppa "interforze" di Eugenio Di Prinzio.

Spettacolare in ogni caso l’arrivo maschile, nella terza manche dove erano stati collocati gli under 50: ha vinto in 15:35 Luca Malpighi della Victoria Atletica di S. Agata Bolognese (il paesone di Nilla Pizzi, di Alessio Guidi e purtroppo anche di Elettra Lamborghini), decatleta o quasi, che a giorni farà 25 anni e, come tesserato Sacmi Imola vanta sui 5000 un 16:02 conseguito a Modena nel 2018 (dunque oggi nettamente superato), sui 10mila ha un 33:13 di sei mesi fa, e sulla mezza ha 1.16:45.

Malpighi ha preceduto piuttosto nettamente (8 secondi) il piacentino Filippo Trevisani, che a sua volta ha prevalso di un secondo su Andrea Bergianti (Corradini, primo M 35) e di 2 su Lotfi Gribi (Modena Runners, primo M 30). Molto staccati gli altri, tra cui cito il vincitore M 45, Federico Soriani (Quadrilatero Ferrara), e il primo degli M 50 nonché vincitore assoluto della prima manche, Massimo Sargenti (Modena Runners: prevalentemente chiamato Sergenti, con allusioni militaresche, dallo speaker forse influenzato dalla recente proposta di reintrodurre la naia obbligatoria).

Tra le 21 donne, cui è stata riservata la seconda batteria, ha vinto nettamente Aurora Imperiale, neo-ventitreenne della Fratellanza il cui cognome è stato opportunamente sfruttato al microfono per rimarcare il suo impero assoluto sulle concorrenti: 19:17, quasi mezzo minuto meglio della seconda, Laura Zanini (Rigoletto Mantova), e 34” sulla terza, Melissa Pezzini (Centese, prima delle under 18).

Compagna di squadra del vincitore assoluto, l’ultima di lista, ma prima F 65, Lorenza Venturini (32:17), che comunque ha inferto quasi un minuto e mezzo (virtuale) al vincitore M 75, il Giuseppe Cuoghi della Cavazzona (non di S. Agata come è piaciuto dire allo speaker), che conosce bene questi posti dove ogni anno, senza saltarne nessuno, arriva al traguardo della Corrida; e nella sua precedente vita sportiva si destreggiava nell’adiacente pista di hockey tra le file dell’Amatori Modena di Marchetto e Renna Artioli.

Organizzazione più che egregia, non solo per gli inappuntabili servizi di cronometraggio, classifiche in tempo reale ecc., ma anche per la disponibilità di due lettini per massaggi, professionalmente gestiti dai ragazzi della Fisiokinè di Soliera e altre località limitrofe (a me è toccato il giovanissimo Riccardo, che al termine, in mancanza di altri clienti, spontaneamente si è offerto di raddoppiare i massaggi). Accanto a loro, i nutrizionisti Giacomo e Marica, con cui ho avuto un proficuo scambio di opinioni (6 porzioni di frutta al giorno: io che ne prendo almeno 12, ingrasso per questo?).

Nutrito anche il pacco gara, cui si sono aggiunte abbondanti premiazioni per tutte le categorie federali (altrocchè quegli organizzatori che accorpano di 10 in 10 anni, o addirittura fanno categoria unica per gli over 50 e le donne). Premiazioni svolte in gran parte dall’assessora a Istruzione, Formazione professionale, Sport e Pari opportunità Grazia Baracchi: diplomata Isef con 110 e lode, esecutrice e coordinatrice di infiniti progetti per la pratica dello sport, l’associazionismo sportivo, l’apertura al mondo dell’handicap, e oltre a tutto (è vietato dirlo?) gran bella signora, che al parco è venuta non con l’autoblù e il codazzo di vigili, ma su una bici abbastanza d’epoca. (A me però la medaglia al collo è toccato di metterla a Maurizio Pivetti, “perché a correre non c’ero io!”, mi ha sussurrato mettendo in non cale il recente esito del Fassa Running).

Gestione vocale, con l’usuale professionalità, del terzo Brighenti frequentatore di quest’area: ovviamente è lo speaker Roberto, che se a volte si fa prendere in castagna per piccolezze, appare invece gigantesco rispetto alla concorrenza, anche altolocata: dopo aver sentito il cronista Rai Francesco Repice raccontare il derby milanese coi toni deprecabili dei cronisti-tifosi sudamericani; o il guardone bordocampista Marco Nosotti da Formigine farfugliare su Sky improbabili direttive uscite dalle panchine di Cremonese-Sassuolo; e aver aperto il Corrierone di oggi, che come tutti i giorni fa il titolone di apertura con “Gas, virgola” più la illazione quotidiana; o in pagina sportiva sforna l’altro titolone “Juve, c’è poco da stare Allegri” (e non manca di dedicare un paginone genuflesso all’ennesimo libro di Orso Yoghi Mieli, o di scusare il collega Filippo Ceccarelli, di Repubblica, per aver dichiarato che le passioni politiche degli italiani durano come le scorregge)..: allora dico che se questi sono i leader dei media di oggi, “Brighenti tutta la vita”.

3 settembre – A giudicare dall’ampia disponibilità di parcheggio ancora a pochi minuti dalla partenza, direi che ci fosse molta meno gente dei tempi d’oro, oggi a Cittanova (sobborgo sulla via Emilia a ovest di Modena, così chiamato perché nel medioevo più buio i modenesi fuggirono dal capoluogo in preda ai barbari spostando qui i fiochi bagliori della romanità).

L'organizzazione dichiara 291 pettorali acquistati (di cui 41 della società organizzatrice), pochini; eppure era l’unica gara del weekend modenese, perché non credo (data la refrattarietà dei ‘geminiani’ a scendere nella Bassa) che l’indomani accorreranno frotte di mediopadani a Concordia; né, data la selettività e competitività dei percorsi, andranno in molti ai trail di Castelnovo Monti o ai 5000 ‘in pista’ di Modena. Forse il Covid, come diceva don Abbondio della peste, è stato una bella scopa; o per essere meno tragici, diremo con Modugno che la lontananza è come il tempo, che fa dimenticare chi non s’ama; o infine, più materialisticamente, si può dire che l’aumento della quota d’iscrizione dagli 1,5 di prima ai 2 di adesso ha provocato una specie di price-cup o di ‘sanzioni’: a resistere in controtendenza, c’erano la Formiginese di Paolo Cavazzuti, l’Interforze di Eugenio Di Prinzio, la Madonnina di Antonio Ragazzi, la Sassolese di Casolari, la Ghirlandina della famiglia Vecchiè, e qualche cane sciolto (uno addirittura del Monte San Pietro di Bologna: uno, dico, alla partenza ‘giusta’, gli altri chissà da quando erano andati via).

In compenso, quanto a fotografi c’era di tutto e di più: almeno cinque degli abituali (o quasi) di questi territori; e ringrazio Nerino per non avermi applicato, anche lui, sanzioni, inoltrando a Mandelli quanto bastava per il suo ennesimo collage-capolavoro, in cui ha voluto inserire sia la figlia della Teida, sia Giaroli in compagnia del sottoscritto, nonostante quest’ultimo appaia (a detta di Mandelli) “come Nembo Kid del PD al gazebo delle salamelle”.

Il percorso (9,2 km, e ridotto di 4), denominato cross-country ma che si svolge tutto su asfalto tranne un mezzo km su stradina sterrata all’interno della tenuta agraria-modello dei Panini (dicono che abbia studiato un metodo addirittura per abolire i gas-serra emessi dalle vacche!), è un trapezio, quasi rettangolo, che ricalca in senso contrario la più celebre corsa novembrina della stessa Polisportiva Cittanova di Peppino Valentini, con la novità negli ultimi km di uno stradello ora riaperto, tra le antiche scuole di Corletto e la via Emilia, dopo la soppressione della ferrovia che lo interrompeva.
Organizzazione professionale quanto basta, da Rambo che ti indirizzava al parcheggio perfettamente squadrato, fino a Verzoni che al termine ti dava il sacchetto-premio di partecipazione (acqua minerale, pasta, biscottino, creme per la pelle e l’immancabile flacone di gel igienizzante, che come i vaccini di Speranza giace stoccato a milioni di esemplari prossimi alla scadenza). Per i bambini c’era anche il gelato, ma non è che ci fosse una gran richiesta.

A sovrintendere su tutto, fornito di microfono, naturalmente Peppino, affiancato dalla famiglia e da tutti gli abituali collaboratori (con l’apporto decisivo di una decina di sponsor, quasi un record per una non competitiva da poche pretese): peccato che, malgrado il volantino reciti “partenza unica ore 17,00”, già alle 16,30 desse il via libera a chi volesse andarsene.

Si parte e arriva di fianco alla chiesa, dove negli anni ormai antichi lasciavamo le auto per imbarcarci, alle 2 di notte, sui pullman allestiti dal compianto Zavatta per le maratone estere: Nizza, Chamonix, Plitvice, Budapest, Annecy, Buhlertal… Quanti ricordi abbiamo rispolverato con Paolo Giaroli (tra i pochissimi reggiani presenti), trotterellando pacificamente ai 6:10 a km (sapete che “trotterello” fu la traduzione di jogging proposta alla Crusca?), e rivangando questi o quei protagonisti di quarant’anni sulle nostre strade tra Crostolo e Secchia; molti non ci sono più, ma resiste Randolfo di Fabbrico, sebbene (aiunt) ormai più largo che lungo.

E finché resterà un Peppino Valentini, avremo la speranza che il podismo di una volta non sia morto del tutto.

28 agosto - Allerta gialla per le precipitazioni in Emilia Romagna, secondo i meteoastrologi e i pubblici amministratori che si ubriacano dei loro vaticinii, come in altri momenti zittiscono i dubbiosi a suon di “lo chiede l’Europa” o “lo dice Burioni da Fazio, lo conferma la Viola dalla Gruber”. Difatti, nelle ultime 48 ore, su Modena città è piovuto moderatamente per un’ora (in tutto) sabato pomeriggio, mentre questa domenica si è aperta intorno ai 25 gradi con afa, che sono poi saliti a 27 o più in tarda mattinata a Pavullo (680 metri), baciata da un sole che lasciava requie solo nei tratti all’ombra dei boschi, su sterrati appena soffici per la pioggia del giorno prima. 
Peraltro i pubblici amministratori non si sono preoccupati dell’allerta, accorrendo (guidati dal presidente della Regione) a 12 km da Pavullo per festeggiare una campionessa ciclista locale.
Abbiamo fatto senza di cotanto corredo, accontentandoci di “Roberto Brighenti speaker sportivo di prestigio internazionale”, come recitava il volantino della Mezza del Brenta giunto fino a Pavullo chissà attraverso quali mani: e magari a quella mezza, programmata per il giorno delle elezioni, se sapremo che ci sarà anche Giorgio Calcaterra, ci iscriveremo a frotte.

Intanto, a Pavullo eravamo tornati il migliaio o più (non esagero) degli anni d’oro: non tanto per il prestigio del Circuito, o del sovrapponibile Campionato provinciale Uisp di corsa in montagna, che hanno portato circa 160 competitivi, ma per la compresenza di una non-competitiva che offriva anche le distanze di 4,5 e 7 km: schermate dal patetico annuncio che l’organizzazione effettuerà “opportuni controlli per evitare partenze anticipate”. Difatti, arrivando mezz’ora abbondante prima della partenza, tutti gli spazi parcheggiabili nel raggio di un km dal ritrovo erano occupati, e tra le auto in manovra facevano già lo slalom, non i partecipanti al nordic/fit-walking previsto per le 8, ma gli “atleti” delle ore 9, incuranti delle gride manzoniane.

Il tracciato, comunque, merita che lo si percorra: suddiviso abbastanza equamente tra asfalto e sterrato (con l’aggiunta del km acciottolato e con dislivello di 140 metri nella salita al castello di Montecuccolo, km 11), con un dislivello totale di circa 340 metri, si snoda ad anello in senso orario sulle montagnette prima a est poi a ovest del capoluogo (che abbiamo attraversato poco dopo il via), con una visuale perfetta, alla faccia dell’allerta gialla, su tutta la catena appenninica tra il bolognese e il reggiano.

Dopo 5 prove su 6 effettuate, col sistema di punteggio stabilito indipendentemente dal numero dei partecipanti, le classifiche del "Frignano" erano praticamente già decise, e ciò spiega l’assenza anche in questa gara di molti big locali, che non avevano più la convenienza pratica di venire qua (a loro i panorami non interessano). Onore invece a chi è venuto, non proprio di secondo piano: il podio allargato dei primi maschi vede ai primi posti il reggiano Salvatore Franzese in 54:12 (alla prima presenza nel circuito), appena 6 secondi in meno del veterano ferrarese Rudy Magagnoli, pure all'unica presenza qui; a 55:13 finisce Matteo Pigoni, 48 anni, che sia pure col peggior piazzamento di tutto il circuito (dopo 4 vittorie e un secondo posto), consolida il successo in classifica generale; come lo consolida il secondo, Davide Camilli, che col suo decimo posto odierno guadagna un altro punticino sul terzo della generale, Robert Ferrari.

Tra le donne, il successo di tappa è andato ad assolute outsider, nel senso di totalmente assenti dalla graduatoria generale: ha vinto la titolata trentenne locale Francesca Giacobazzi in 1.06:48, meno di un minuto sulla 45enne Ramona Barbieri, e poco di più sulla 24enne Laura De Marco. Delle piazzate dopo le prime 5 gare, la meglio arrivata oggi è Sonia Donnini, settima, che risale al nono posto nella generale.
Ma il decimo posto conquistato oggi da Francesca Venturelli (Formiginese) le garantisce anche il titolo assoluto, davanti alla scandianese Simona Garavaldi (oggi 14^) e a Simona Malavasi della Madonnina (25^): tutte e tre sono le uniche ad aver partecipato alla totalità delle gare (senza averne vinta nessuna), come del resto accade ai primi sei della classifica maschile (dove però Pigoni si è affermato 4 volte). Non sarebbe male, per movimentare l’interesse, prevedere almeno uno ‘scarto’, tanto più che il circuito si svolge quasi interamente durante le ferie estive ed è normale che qualcuno sia altrove.

Dopo le ‘eccellenze’, mescolati tra competitivi e no (di questi ultimi, parecchi non esibivano il pettorale: certamente l’avranno lasciato in borsa, e allo stesso modo, quando entrano in un cinema diranno che il biglietto è rimasto nella tenda), c’eravamo noi mille o più, incluso Nerino Carri che per una volta ha dismesso gli attrezzi del fotografo ed è tornato alla passione primigenia riprovando l’effetto che fa il partire all’ora giusta (con lui, Paolo Giaroli, un altro che non ha mai sgarrato sull’orario prescritto). Personalmente, la sfida con Paolino Malavasi è durata non più di 4 km, tra la prima e la seconda “torre”, quando lui se ne è andato per dimostrare anche a Frarein che va più forte; in contemporanea, mi ha raggiunto Enzo Deganutti da Cormons, un classe 1960 che gira mezza Italia alla ricerca di belle gare; un mese fa era stato premiato da Brighenti alla mezza di Livigno, e ricorda di aver corso con me non solo sulle Colline del Secchia qualche mese addietro, ma addirittura alla mezza di Casalmorano (CR) ben prima dei tempi covidici. 
Abbiamo corcamminato insieme per tutti i restanti 10 km (per lui era la prima volta qui), avvicinando Paolino ma restando indietro da lui all’incirca del giro di pista finale (mentre Claudio Morselli da Mirandola era già arrivato da 8 minuti e sblisga): per tutti, Brighenti da vero glocal trovava un giro di parole appropriato.

Due ristori idrici lungo il percorso, e uno al traguardo ma senza la cocomera dei tempi antichi (“ce l’hanno vietato”, magari perché lo dicevano Burioni o la Viola), però con ottimo caffè offerto dall’inizio alla fine. Vasetto di marmellata come premio per chi ha pagato i 2 euro della non comp, con l’aggiunta di una canottiera e due salamini per i competitivi da 10 euro (cifra, direi, ragionevole, specie se confrontata ai 28/30 dei quali Paolino si farà tassare domenica prossima per una 21 tra le paludi e il mar Adriatico, ovviamente moltiplicando il tutto per due, a pro del figlio Maurito).

Si torna in città, con la temperatura salita a 30 gradi: io voglio la pace, as capéss, ma intanto accendo l’aria condizionata e mi faccio un bel bagno in vasca (bè, sul tetto ho un collettore solare impiantato dall’allora sponsor della Podistica Cittanova, vedete se non conviene finanziare il podismo). 
E se a Modena stanno costruendo scenari posticci di legno per il film su Enzo Ferrari, nella realtà sembrano assai posticci anche gli eredi di Ferrari, che fermano Leclerc a due giri dalla fine, col risultato di farlo scendere dal quinto posto sicuro al sesto, oltretutto con penalità che per un pelo non lo porta al settimo. Quasi quasi verrebbe da rimpiangere Luca Cordero del Prezzemolo, che dopo aver partecipato al matrimonio-kitsch veneziano della Diva, si trova due pagine-due sul Corrierone di oggi (aperte dalla rivendicazione di non essere figlio di Gianni Agnelli, excusatio non petita, e di essere stato ‘scoperto’ da Enzo Ferrari tramite Roma 3131), dando del cattivone a Marchionne per averlo cacciato dalla Formula 1 dove stava collezionando una gloriosa serie di sesti e ottavi posti…

I 267 classificati nel Circuito del Frignano, a cominciare da Alberto Michelini della MDS, oggi 159°, hanno a che fare con lo sport molto più di certi beneficiari di nozze-kitsch e susseguenti articoloni sui giornaloni.

Classifica finale del Circuito: http://podisti.net/index.php/classifiche/16431-circuito-del-frignano-2022.html?date=2022-08-28-00-00

 

Venerdì, 26 Agosto 2022 23:26

San Marino di Carpi, 24^ Madona di Puntzee

26 agosto – Rieccoci alla camminata semicampestre alla periferia nordest di Carpi, un anno meno un giorno dopo l’edizione dell’anno scorso che riallacciava un filo interrotto dal Covid. Allentata la stretta epidemica (sebbene le statistiche dicano che i morti di questo mese siano superiori a quelli corrispondenti degli ultimi due anni, e la nostra amica Franca, tre settimane dopo la quarta dose, si ritrovi 'positiva'), rispetto al 2021 non si chiedono autocertificazioni, Peppino Valentini esibisce orgogliosamente la tenda del Cittanova per tesserati e occasionali; e perfino Leandro Gualandri si è presentato senza mascherina.
E’ rimasta la finestra di un’ora (18-19) per le partenze, ma una cinquantina di appassionati all’antica (non molti meno della folla poco oceanica che, stando al report da Bologna del Corsera di oggi, è accorsa a inneggiare il segretario nazionale del suo partito) ha atteso le 19 per partire tutti insieme al via: ne vedete alcuni nella foto di copertina della cartella inserita dal Mandelli (papabile anche come autore della foto di Lupi alla Stramilano pubblicata dallo stesso Corrierone di oggi a p. 11). Ne ho approfittato per entrare, non visto attraverso una porticina sotto il campanile, nella chiesa terremotata e inagibile: ma l’occasione di una cancellata aperta ha fatto l’uomo ladro, e avevo nostalgia di vedere le magnifiche vetrate di Enzo Ronchetti (un grande roveretano, da poco scomparso quasi centenario: l'avevano temprato i lager della guerra) datate 1985 e che raffigurano i santi tutori, San Marino e la Madonna dei Ponticelli. Almeno queste si sono salvate, tutta la chiesa nel suo complesso mi sembra recuperabile, e spero che il vescovo di Modena & Carpi mi assolva dal peccato di intrusione sentimentale.

E alle 19, a noi: ancora rinnovato il percorso, sebbene gli organizzatori non ne vogliano sapere di passare dal santuario che dà il nome alla gara (l’abbiamo visto a meno di 500 metri nella parte iniziale e finale del giro): più lungo, 8,5 km effettivi, quasi tutti sterrati, rispetto ai 7,4 del 2021, seguendo l’argine del canale Lama di San Marino fino alla centrale e al ponte della Pratazzola (con vista nitida sul duomo e il campanile della Sagra di Carpi), dove si passava il canale (alquanto fetido) per ripercorrerlo nell’altro senso, ma senza più il transito dal boschetto (o è il boschetto a non esistere più?). Chi correva fidandosi della memoria degli anni passati (come Rambo Benassi) è anche dovuto tornare indietro, cosa che per una cinquantina di metri è capitata pure al sottoscritto, perso nelle chiacchiere con l’eterno rivale Paolino Malavasi, su progetti di maratone imminenti e gossip su colleghi antichi e moderni, e la morale di Ivano al Plèe dla Mirandla. La Simona della Madonnina ci esorta a non sfidare in gara le donne, cui Paolino replica che ci sono super-donne che vincono la classifica assoluta di certe maratone, e io aggiungo la soddisfazione archeologica di aver battuto quella tal donnina che ogni sera, durante il giro a tappe di Riccione, diligentemente si preparava un beverone giallo e uno blu, mentre noialtri annaffiavamo di Albana la frittura di pesce. Ho persino scoperto che Werther Torricelli ha vissuto 15 anni a Cincinnati vendendo macchine per etichettare bottiglie, e la sua signora conserva ricordi indelebili del Mid-East e di Nashville soprattutto.
Aldilà dei valori agonistici oggi inesistenti (per me e Paolino, media certificata di 6:30/km, senza far la tara delle chiacchiere al tavolino del ristoro; molto più seria Eugenia Ricchetti, tra le poche reggiane presenti) è stata l’occasione per un allenamento diverso dalle tristi corsette solitarie di primo mattino cui ci sottoponiamo per recuperare un po’ di condizione; e il modo di rivedere tanti amici locali: Salardi a dare il via, Giorgio Diazzi al ristoro del km 5 (ma ormai non promette più che “quando rifaremo la maratona di Carpi sarai il primo a saperlo”), accompagnato come sempre da Gamba ed legn Danilo Sala, l’unico in tempi recenti a percorrere tutta intera la Modena-Abetone, anche se oggi, superati gli ottanta, si accontenta di brevi camminate, e chissà se cucina ancora le sue squisite rane con pescegatto.

Premio per tutti, a fronte di 2 euro di iscrizione, una confezione di sei uova; ristoro finale molto francescano, solo acqua e tè (mentre di fianco ci scorrono le salsicce da arrostire per la festa), restando ormai nella leggenda le fette di langùria che  la Marisella tagliava a tutto spiano, nei bei tempi; ma si può restare a cena senza difficoltà, oppure ‘asportare’ cibi come il tradizionale gnocco fritto, offerto a 60 cent il pezzo quando agli orti degli anziani di Modena lo fanno pagare 1 euro.
Zanzare in quantità accettabile, temperatura che dai 32 delle 18 scende ai 27 dell'imbrunire. I meteoastrologi insistono che arriverà la pioggia; è più probabile che arrivino le competizioni strenue nelle quali, come i frequentatori di quel tal festival bolognese, faremmo la firma per "una sconfitta sostenibile"; intanto, per questo tramonto di un'estate che sembra non finire mai come quelle sanmarinesi del grande Nereo Lugli, ci siamo accontentati di una sana e nostalgica rimpatriata sotto il manto della Madonna che guarì la "puttina" sordomuta.

6 agosto – Dopo una prima edizione del 2021, sulla distanza unica di 32 km che aveva classificato 73 atleti, la valle di Cervinia si è ripresentata nel primo sabato di agosto, proponendo due distanze: i 31 km (con piccola modifica rispetto all’anno prima), dai 2000 metri di dislivello, e i 18 km, dichiarati con 1100 m D+. Partenza e arrivo a Maen, 1330 m di altezza, sulle rive di un lago artificiale il cui riempimento rende ottimisti e fornisce al termine un refrigerio ai nostri piedi ‘leggermente’ impolverati, con ottima disponibilità di parcheggi adiacenti, e contiguità con la festa del cibo di strada, la cui fruizione per gli iscritti era compresa nel prezzo del pettorale (25 e 35 euro a seconda dei percorsi). Si cominciava, quando il termometro segnava 14 gradi, con la risalita verso l’alta valle, sulla destra idrografica del torrente Marmore, ricco d’acqua come tutti i torrenti in zona (benedette anche le fontanelle freschissime in tutti i villaggi) e ripassato dopo circa 4 km, quando comincia la prima salita ‘seria’, che intorno al km 10 porta alla prima cima, 2359 metri in corrispondenza dell’arrivo della funivia di Salette (La Roisette).

Già questa differenza altimetrica, di oltre 1000 metri dalla partenza a questo intermedio, mette in dubbio che il D+ del giro ‘corto’ sia solo di 1100 metri. Basti pensare che già prima c’erano state salite e discese, intenzionali o no che fossero (vedi sotto), tant’è vero che dopo 2,2 km si era saliti di 200 metri, ma poi si è tornati grosso modo all’altezza del capoluogo di Valtournenche (1530 m) per risalire alla Salette; dunque i 1100 metri erano già fatti, pur essendo noi ancora a metà del giro ‘corto’.

Mentre quelli del ‘lungo’ svoltavano a sinistra, per la meravigliosa conca delle Cime Bianche (White peaks, secondo la pessima idea di inventare un nome inglese: e quanti angloamericani sono venuti a correre?), salendo di altri 800 metri fino ai 3166 della Gran Sometta, per poi tornare a Salette e da lì, in comune coi loro colleghi più ‘corti’, attraverso vari saliscendi lungo il meraviglioso sentiero panoramico 107, a raggiungere Cheneil (uno dei villaggi più incantevoli dell’alta val d’Aosta, a 2100 metri, e all’incrocio col sentiero del col di Nana, alias alta via n. 1 ben nota ai frequentatori del Tor des Geants e ai camminatori con zaino in spalla); e da lì avviarsi in discesa verso Valtournanche salvo una deviazione finale di circa 3 km per raggiungere Maen attraverso un sentiero nel bosco, con pendenze fino a 25 gradi (che significa una pendenza del 55%).

Doveroso partire dai vincitori: sul percorso lungo è stata una lunghissima volata, o se vogliamo un arrivo trionfale in coppia, tra i due compagni di squadra Climb Runners Alessandro Ferrarotti (29 anni) e Francesco Nicola (26), con vittoria a spalla del primo in 3.47:41; a 30 secondi è giunto il terzo, Maurizio Basso, che deve aver recuperato assai nel tratto finale perché quando mi ha superato, grosso modo a 4 km dall’arrivo, aveva un distacco ben superiore (infatti era passato dall’intermedio con un minuto dalla coppia di testa). Degli altri, mi piace segnalare il 9° posto di Marco Bethaz, il più anziano dei primi coi suoi 58 anni, non solo perché era tra i pochi reduci della prima edizione (dove era giunto sesto), ma perché al traguardo l’attendevano la mamma e la sorella Milena, grande e sfortunatissima campionessa di trent’anni fa, compagna di tante “Martze a pià” in queste contrade.

Tra le donne, ho assistito in diretta (avendo finito da poco il percorso ‘corto’) all’arrivo di Marina Cugnetto in 4.22:54, 13° posto assoluto, e quasi un quarto d’ora di margine sulla seconda Margherita De Giuli, compagna di squadra dei due vincitori uomini. Ritengo invece che sia venuta qua per fare una passeggiata la plurititolata Francesca Canepa, giunta solo 52^ in quasi 5 ore e mezzo.

114 gli arrivati, dunque con un netto incremento sul 2021; cui si aggiungono i 73 classificati della esordiente 18 km (17,5 circa secondo i Gps, che però dichiarano 1350 metri di dislivello), regolati tra gli uomini dal 27enne Stefano Vota, 1.55:02 e due minuti e mezzo sul ‘ragazzino’ diciassettenne Erik Brunod. Anche qui, la prima donna risulta 13^ assoluta: Elisabetta Negra, 36 anni, 2.19:52, una quarantina di secondi sulla 31enne Martina Baronio, altra rappresentante dei Climb Runners.

Fin qui, i “front runner”, come è venuto di moda dire adesso, su istigazione di uno che ha la fronte molto spaziosa; poi tutti noi, fino alle 6 ore abbondanti degli ultimi due, ‘salvati’ nonostante il tmax fosse fissato in 5 ore; e alle 8.23 circa degli ultimi tre del lungo (dove peraltro il tmax era di 9 ore). Ma sembra che una metà circa abbia denunciato uno sbaglio di percorso, che l’ha allungato ‘a discrezione’ e forse aggravato altimetricamente. Secondo la ricostruzione degli organizzatori, intorno al km 3, quando il sentiero iniziale si immetteva nell’Alta via n. 1 in direzione Cignana, qualche malintenzionato aveva tolto la freccia che indicava la direzione da prendere a sinistra (cioè in su, per mantenere lo stesso versante), cosicché la maggioranza di noi, orientandosi a vista con l’occhio sulla funivia di Salette, si è diretta invece a destra in discesa giungendo in centro di Valtournenche, e da lì arrangiandosi per recuperare la strada giusta (che in genere era ottimamente segnata, soprattutto con provvidenziali bolli arancione sui sassi). Alla mia altezza, abbiamo sbagliato in tre, tra cui Nadia, per essere esatti Nadiya Fesyuk, 35enne ucraina da tempo residente in Piemonte. In ogni caso, niente di paragonabile a quello che si dice sia capitato alla Maratona delle Dolomiti pochi giorni fa, tra sospetti di bici elettrificate o tagli di percorso o autostop (ciclisti, avete imparato dal Passatore?).

Noi duri e puri, dopo qualche meditazione sulle paline segnaletiche, abbiamo infine ritrovato il sentiero 20 che (per quanto mi riguarda, con l’ausilio della ‘scopa’ dei 31 km, un abituale frequentatore del Tor des Geants), nei 3 km più pendenti del tracciato ci ha portato alla Salette, sede del ‘cancello’ e di un ristoro quanto mai ricco.

Lì è finita la sofferenza e cominciato l’idillio: mancavo da questa conca dal 2010 (quando preparai qui il quarto UTMB, quello drammatica dell’interruzione causa meteo terrificante, la ripresa su percorso ridotto a circa 100 km, con sole iniziale e altra bufera sul col Ferret, cui però seguì la Bovine non terribile come le altre volte, a confronto di ciò che avevamo passato nei km precedenti); e in quella balconata ho capito come mai, per 36 estati consecutive, fossi andato, cocciutamente, banalmente, a passare le vacanze in Val d’Aosta. Mi si sono inumiditi gli occhi pensando a quello che è stato e forse non sarà più (ovviamente anche oggi ero nettamente il più vecchio in gara); ma poi è stato necessario asciugarseli e guardare bene a terra, perché la discesa su Maen è stata, come anticipato, la parte più tecnica del giro.

E Nadiya mi aveva detto poco prima che il suo amico ortopedico è stanco di riparare ginocchia di trailer che se le sono mangiate saltando sui sassi in discesa: non è però il mio difetto, dato che in discesa non sono mai riuscito a stare sotto gli 8:30 a km, e che i camosci della 31 passassero pure volando e atterrando ogni 3-4 metri. Perché correre e lasciar svanire in fretta gli spettacoli della natura?

Comunque arriviamo quasi tutti (i ritirati si contano sulle dita di una mano), prontamente annunciati dal caratteristico speaker locale che lavora a fianco dei cronometristi di Wedosport. Verso l’una la temperatura sta già a 26, e il ristoro finale, ricchissimo (fontina, torte, frutta ecc.), è stato molto gradito anche per la dotazione senza fine non solo di acqua fresca, ma di birra (alcoolica) e coca, che poi abbiamo integrato sui tavoli della festa gastronomica a fianco. Non erano previste docce, ma mi è stato cortesemente permesso di usufruire dei servizi del camping Glair (di cui ero stato ospite mezza vita fa). Qualche gadget utile nel pacco gara (oltre alla maglietta griffata); tra questi non suscita particolare simpatia l’integratore “CR7”.

Ciò nonostante, si riparte dando il poudzo a tutti: pochi km sotto, nel comune di Antey, il termometro segna già 30, che saranno 33,5 al casello di S. Vincent, e 35 a Piacenza. Allarmato da un titolo del Corsera (29 luglio, p. 25: “il grande Po non esiste più”, perché si avvicina alla “soglia psicologica dei 100 mc di portata”), verifico la “psicologia” del Po al passaggio autostradale, trovandolo comunque in buona salute (nessuna spiaggia: a parte che io sulle spiagge del Po ci passai l’agosto 74 e nessuno gridava alla secca e alla morte del fiume). Ma si sa, i giornaloni front-runner devono pur trovare titoloni; noi più modestamente ci accontenteremo del vecchio motto militare, “Cousta l’on ca cousta, viva l’Aousta”.

D’estate, i giornali si riempiono di inviti a letture “sotto l’ombrellone”, in genere cose frivole, romanzetti giallorosa o biografie di gente dello spettacolo, magari associate al metodo seguito dalla tale per dimagrire o vincere la dipendenza dall’alcol; è ancora più forte il richiamo dei periodici di gossip, per sapere con chi sta quella là o su quale tv andrà in onda da settembre il tale spettacolo di varietà, come sempre “imperdibile” (aggettivo che di solito contrassegna le cose che invece si possono perdere, con grande vantaggio del perditore).

Sul terreno degli sport che qui ci interessano di più, non può mancare l’ennesimo manuale che ti insegna ad allenarti, con parole riciclate da mezzo secolo delle quali si promette la messa in pratica in qualche summer camp, ovviamente accompagnato da escursioni turistiche nella natura “incontaminata” (dove è mai la natura incontaminata? nemmeno in Antartide, e certo nemmeno sulle Dolomiti o sulla costiera amalfitana; ma l’aggettivo piace) e cibi “a chilometro zero”, magari pane fatto in casa col grano che arriva da Odessa, e insaccati casalinghi da carne suina ungherese.

Insomma, d’estate le balle si moltiplicano, e allora viene il desiderio di irrobustirsi piuttosto lo spirito con letture, sportive e atletiche sì, ma “sode”, che ti lascino qualcosa. Senza pretendere che la cosa faccia lo stesso effetto su tutti, e garantendo che non scrivo per tornaconto personale o sociale (insomma, non c’è un banner da acquisire e far digerire), a me è capitato mettendo gli occhi su una nuova rivista, uscita nella primavera di quest’anno presso l’editore Fabrizio Serra di Pisa e Roma (www.libraweb.net), specializzato in testi accademici, alcuni anche piuttosto pesanti per il lettore medio. Ed accademica si presenta anche questa “Rivista internazionale di Letteratura” che nell’austera copertina verdognola porta il titolo Scritture e linguaggi dello sport, circa 150 pagine piuttosto fitte, nessuna illustrazione ma tante note a piè pagina e rimandi bibliografici da far girare la testa.

La responsabilità della rivista è affidata a tre “eccellenze” (per usare un’altra frase fatta della pubblicistica odierna, che mette insieme cibi, architetti, cuochi - pardon, chef stellati - e marchi di fabbrica dal passato glorioso e dal futuro incerto): il direttore Alberto Brambilla da Busto Arsizio (località dove si tenne la prima “maratona popolare” alias tapasciada d’invernu, a fine 1971), nulla a che vedere con l’ex marito della Pivetti, trattandosi invece di un docente alla Sorbona di Parigi, già da tempo impegnato nella critica sportiva, e fondatore della rivista “L’Arcimatto. Quaderni per Gianni Brera”; e i vicedirettori Gilberto Lonardi (docente a Verona, il primo che negli anni Settanta osò introdurre un capitolo su Brera in un austero dizionario critico di letteratura italiana) e William Spaggiari, geograficamente uno dei nostri, essendo partito da Novellara per insegnare alla Statale di Milano, e che fra le tante sue passioni coltiva quella dello sport (fu pure dirigente della squadra di basket della sua cittadina). Se poi, nella redazione, vediamo anche il nome di Sergio Giuntini, direttore della Società italiana di storia dello sport, e autore, fra l’altro, di una storia dell’atletica leggera (2017), capiamo che questa rivista è la chiave giusta per introdurci nella stanza dello sport praticato, raccontato e anche fantasticato.

Spetta a Brambilla l’articolo di apertura, per una “mappa” delle scritture sportive dalla ripresa olimpica del 1896 in poi: Olimpiadi 1896, risultate decisive anche per lo sport che ci coinvolge di più, con l’ “invenzione” della maratona. Alla quale (lasciando stare per ora la serie di articoli e libri uscita per l’impresa di Dorando Pietri), dopo le olimpiadi di Anversa del 1920 fu dedicato un primo romanzo di invenzione, ma solidamente ancorato alla realtà sportiva venendo da Nino Salvaneschi (pavese, capo ufficio stampa del CONI, e fondatore nel 1912 del “Guerin sportivo”): Il vincitore della Maratona, ispirato alla figura reale di Valerio Arri (che nella maratona olimpica fu in realtà terzo in 2.36). Nel romanzo invece il protagonista, arrivato in Belgio con salda fede anarchica, vince la gara superando allo sprint il capofila inglese, mentre la folla ironizza al grido di “Macaronì”, e alla premiazione, salutando il tricolore issato sul pennone più alto, il campione tra le lacrime si converte al patriottismo. I dettagli vengono dall’altro articolo, questa volta di Giuntini, dedicato in particolare allo “scrivere di atletica”: e a questo attingo ora, senza tacere che Brambilla prosegue con una impressionante rassegna di scritti sugli sport venuti nel frattempo alla ribalta, boxe, ciclismo, calcio e discipline motoristiche.

Giuntini nota preliminarmente che in casa nostra, a parte la “ridondante” manualistica tecnica, e i tanti libri autobiografici scritti o meglio firmati da atleti, non ci sono stati capolavori come certuni nati all’estero (tipo La solitudine del maratoneta di Sillitoe, L’arte di correre di Murakami Haruki, Born to run di Mc Dougall ecc.). Eppure, la corsa a piedi cominciò a insinuarsi nella letteratura “alta” almeno nel 1857, quando il milanese Giuseppe Rovani, nel romanzo-fiume Cento anni introduce un tal Andrea Suardi, professione lacchè, vincitore di una specie di campionato regionale di corsa e subito ingaggiato da un nobile napoletano.

Si passa al Novecento, quando il fondatore del futurismo, Marinetti, entusiasmato da una 10 km sui bastioni di Milano, si lasciò andare a una professione di fede “nella bontà fatta dalla potenza dei muscoli e dalla luce dell’ideale”. Eravamo nel 1911, e salendo al 1920 delle Olimpiadi di Anversa, ecco apparire la riflessione di Ettore De Zuani su L’ultimo maratoneta, che ancora non arrivato si è tolto le scarpe e si guarda i piedi lividi, pensando ai tremila km a piedi che l’aspettano per rientrare in patria (forse c’è il ricordo del maratoneta Ajroldi che aveva raggiunto Atene a piedi nel 1896, ma solo per essere respinto dagli organizzatori in quanto accusato di professionismo).

Venne poi il 1960 di Roma, quando uscì sotto il nome di Giovanni Floris (nulla a che vedere con l’imberbe telegiornalista talkshower e perfino romanziere) il poemetto La maratona – Da un diario apocrifo di Dorando Pietri: “La maratona è roba da poveri – come il Regno dei Cieli. – Non conta come si viaggia – ma come si taglia il traguardo”. Anche Pasolini, sgomento per la trasformazione dello sport in spettacolo, affermò di prediligere la “disperata e drammatica” maratona. Qualcosa del genere scappò pure a Eugenio Montale: “Non credo che guadagnino soldi quei poveracci dei maratoneti, come Zatopek… Sono buoni diavoli e mi hanno sempre suscitato simpatia”. Un altro poeta, meno celebrato ma più vicino al mondo dello sport, Giuseppe Brunamontini, intorno agli anni Ottanta si commuoveva per quel “martire” del maratoneta “dal passo di stambecco disperato – sulle strade consolari”, e confessava il suo stupore nel veder passare “improvvisamente, incredibilmente … in souplesse due maratoneti” in piazza Navona, tra gruppi “di scippatori imberbi – di drogati di pederasti – di turisti innocenti”. Di Brunamontini fu premiato dal CONI nel 1967 anche il racconto Il cielo sulle tribune, storia di un operaio che si riscatta vincendo un diecimila.

Invece Nicola Ghiglione, nella poesia Maratona, il podista, in limpidi endecasillabi scandisce: “Il podista cammina sulle spalle – ha il tempo da millenni calcolato. – Non ha terra che tocchi al solo volo, - il piede ferma la dimensione unica”. Mentre Mauro Covacich, alquanto sopravvalutato e persino imitato come romanziere per il suo A perdifiato del 2003, in una poesia Maratonina pensava al dopo: “Già vedo il piede sul bidè – e l’ago bruciato nelle vesciche – vita di virtuali fatiche” (bè, se le fatiche sono virtuali, non producono vesciche: “mangiatemi pure con gli occhi, che briciole non ne faremo”, diceva Santuzza a Turiddu).

Forse tra le più sentite sono le poesie ispirate a Bikila dopo la sua morte nel 1973: Aldo G.B. Rossi ricordava che: “A piedi nudi su ali di gloria – riscattasti la tua negritudine – con spasmi e bava di fiele”. E speriamo che nessun cultore sciocco della correttezza politica abbia a ridire su negritudine, che Rossi fa propria solo per mostrarne l’ingiustizia; nè se la prenda con Marco Venturoli, che nella poesia Bikila ricorda come “il suo viso nero – s’affacciò sui giornali – come uno Zorro sorridente”, e dopo aver tagliato il traguardo di Roma continuò a correre, “come sugli altipiani – per ringraziare i genitori – del dono dei garretti – l’antilope braccata – che gli insegnò la lunga fuga”.

Il nostro Bikila di Seul, Gelindo Bordin, l’anno dopo del trionfo (1989) ha pure scritto un romanzo, L’anello rosso, nel quale un ipotetico maratoneta del prossimo millennio riuscirà a vincere senza valersi del doping; mentre Giulio Mozzi, nel romanzo Corsa del 1995, parla di un Michele che schifato dalle corsette ridotte a “sagre con banchetti di ristoro ogni cinquecento metri”, e il salamino o la bottiglia come premio, preferisce correre da solo, la domenica mattina. Del tutto trascurabile la biografia romanzata di Dorando Pietri scritta da Giuseppe Pederiali approfittando delle celebrazioni centenarie del 2008; eppure, Il sogno del maratoneta fu la base della fiction Rai del 2012, un fumettone dove l’unica cosa a interessare il pubblico (share sotto il 15%) erano le tettine di Laura Chiatti, concesse alternativamente a chi vinceva una gara, tra Pietri e il suo rivale. Che si chiamava, incredibilmente, Barbolini: chissà se per un omaggio ruffiano a chi, riscoprendo Dorando (e promuovendo pubblicazioni su di lui molto più serie, come Dorando Pietri. La corsa del secolo di Augusto Frasca) aveva spianato la strada agli appetiti commerciali altrui, rimettendoci, alla fine, la salute.

Ultimissimo testo di cui scrive Giuntini è un romanzo del 2019, Il guardiano della collina dei ciliegi di Franco Faggiani: storia di un maratoneta giapponese inviato ai giochi di Stoccolma del 1912, che a 7 km dal traguardo sparì nel nulla. Tornò in patria molto dopo, e in incognito divenne appunto guardiano della collina, ritrovando la sua armonia interiore.

Fin qui, i libri che ci riguardano maggiormente, e che ne fanno venire in mente altri, messi da parte in un certo scaffale nell’attesa di leggerli o di finirli (ho un debito morale, ad esempio, con “Sigi”, Simone Grassi, che nell’estate di dieci anni fa mi diede il suo Lo zen, la corsa e l’arte di vivere con il cancro, e se ne andò pochi mesi dopo, nel febbraio 2013). Ma intanto, non posso congedarmi dal fascicolo da cui ho cominciato senza raccomandare la lettura di uno degli ultimi contributi, finalmente una recensione dove non si annuncia genuflessi e conniventi il nuovo Manzoni o Tolstoi o Proust (come si fa invece ogni settimana sui supplementi mondano-letterari del Corriere della sera), e piuttosto, come diceva Foscolo, si sfrondano gli allori di quanti sfornano il loro romanzetto mensile o – appunto come si diceva sopra - da ombrellone.

Questo godibilissimo saggio di una quindicina di pagine è dovuto a un critico e docente universitario parmigiano, Paolo Briganti, che fino a un brutto incidente faceva il rugbista, mediano di mischia in serie B, e da quando ha compiuto 70 anni gareggia nell’altro suo amore sportivo, il nuoto (un mese fa è arrivato 4° ai campionati italiani master di Riccione nei 100 rana). Proprio le sue competenze di rugby, confrontate con le improvvisazioni dilettantesche (o per dir meglio, professionali, nel senso commerciale del termine) di un venerato maestro letterario, l’hanno costretto a cantare chiaro in Baricco e il rugby. Spettacolo, straniamento e ‘cuore’ delle cose, a proposito di due “cronache” di rugby, poi immancabilmente raccolte in volume, che fin dai titoli All Blacks: la ballata del rugby e La danza violenta del rugby dimostrano approssimazione e voglia di stupire, senza badare troppo alla veridicità. Dunque, poco importa se si confonde Tolone con Tolosa, se si definisce “pilastro” quello che tecnicamente è un pilone, se si cita a sproposito Franco Califano, se la cronaca riesce a sbagliare il risultato (23-7 anziché 23-12) perché il cronista, comodamente accoccolato sulla panchina azzurra, si perde una meta; e rompe anche le scatole ai giocatori come testimonierà uno di loro, Matteo Mazzantini, cui toccò persino la sgridata di un alto dirigente federale: “Non sai chi era quello? – Era un rompic** - Ma quale rompic**, quello è Alessandro Baricco! Il coglione sei tu!”.

Per compensare i giocatori della rottura, alla fine del suo articolo Baricco esalterà il loro “cuore e marroni” (“che poi maroni con una sola erre sarebbe stato più efficace”, osserva Briganti), notando come gli azzurri, sconfitti, “escono dal campo con gli inglesi che li applaudono”, cioè col cosiddetto onore delle armi. Senza sapere che accade così in tutte le partite di rugby; ma d’altronde, da un pianista che non è mai disceso a terra dall’oceano, non si può pretendere troppo.

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