Direttore: Fabio Marri

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Fabio Marri

Fabio Marri

Probabilmente uno dei podisti più anziani d'Italia, avendo partecipato alle prime corse su strada nel 1972 (a ventun anni). Dal 1990 ha scoperto le maratone, ultimandone circa 280; dal 1999 le ultramaratone e i trail; dal 2006 gli Ultratrail. Pur col massimo rispetto per (quasi) tutte le maratone e ultra del Bel Paese, e pur tenendo conto dell'inclinazione italica per New York (dove è stato cinque volte), continua a pensare che il meglio delle maratone al mondo stia tra Svizzera (Davos e Interlaken; Biel/Bienne quanto alle 100 km) e Germania (Berlino, Amburgo). Nella vita pubblica insegna italiano all'università, nella vita privata ha moglie, due figli e tre nipoti (cifra che potrebbe ancora crescere). Ha scritto una decina di libri (generalmente noiosi) e qualche centinaio di saggi scientifici; tesserato per l'Ordine giornalisti dal 1980. Nel 1999 fondò Podisti.net con due amici podisti (presto divenuti tre); dopo un decennio da 'migrante' è tornato a vedere come i suoi tre amici, rimasti imperterriti sulla tolda, hanno saputo ingrandire una creatura che è più loro, quanto a meriti, che sua. 

S. Anna Pelago (MO), 8 ottobre – Conclusione davvero degna, in una fresca ma soleggiata mattina di ottobre quasi al confine tra Emilia e Toscana, del Circuito Trail nei Parchi dell’Emilia, tre gare modenesi e una reggiana, disputato in 4 prove dal 9 aprile (Trail della Riva, 20 o 34 km ai Sassi di Roccamalatina), proseguendo il 24 luglio (Alpicella Trail, 14 o 24 km sotto il passo delle Radici), il 4 settembre (Trail della Pietra di Bismantova, Castelnovo Monti, 13, 23 o 37 km), e infine qua, attorno al Lago Santo per 16 e 29 km. Gara rivisitata rispetto a precedenti edizioni, e che trova un antenato addirittura nella “Sgroppata delle tre province”, un trail di 20 km inaugurato addirittura nel 1977 che partiva e arrivava da Rotari, costeggiando, come il percorso più lungo di oggi, il lago Santo e il lago Baccio.

Ma ai corridori di allora (in gran parte podisti da strada) il giro più lungo di oggi sarebbe sembrato spaventoso: 29 km, con un dislivello di 2000 metri ottenuto scalando, dai poco più che 1000 metri della zona di partenza, cinque cime tra i 1775 e i 1991 metri slm. E i campioni che si sono sfidati sarebbero apparsi degli autentici mostri, a cominciare dal 39enne ruandese Jean-Baptiste Simukeka (Orecchiella Garfagnana, foto 27-28), collezionista di successi o piazzamenti in maratone italiane, e qui vincitore in 2.56, un minuto e qualche secondo su David Antonioli, che ha rimontato nell’ultima discesa ma senza colmare un distacco che appariva notevolissimo a 5 km dal traguardo (lo testimonia il sottoscritto, che intento a concludere la sua 16 km si è visto superato in tromba dai due, ancora molto distaccati). Di lusso anche i nomi dei piazzati, seppure con distacchi notevoli dai due battistrada: Marco De Gasperi (il più anziano del lotto, coi suoi 45 anni), terzo a 7 minuti dal vincitore; poi Christian Modena, a un quarto d’ora, e il modenese Giulio Piana a quasi venti minuti.

Decima assoluta è la prima donna, la spagnola Anna Comet Pascua (all'arrivo nelle foto 19-20), coetanea del vincitore maschile, e che ha dominato in 3.46:35, precedendo di 22 minuti la sudtirolese Angelika Eckl (addirittura cinquantunenne), e di quasi tre quarti d’ora la 42enne modenese Giulia Botti. 145 in tutto gli arrivati (21 donne), fino alle 7h46 dell’ultima.

Sul tracciato più corto, alla prima edizione, denominato “Sentiero delle cascate” perché sfiorava una suggestiva serie di salti d’acqua (come quelli delle foto 15-16) meta di molti turisti, e quantificato in 16 km anche se i Gps hanno sentenziato 14,3 confermando peraltro i quasi 600 metri di dislivello, si è imposto Saimir Xhemalaj (28enne dei Modena Runners), non nuovo a queste imprese, in 1.06:18, esattamente un minuto meglio di Marco Rocchi (46enne della MDS), che a sua volta ha staccato di quasi due minuti il terzo, il lecchese Omar Stefani.

Tra le donne, ancora un trionfo, fra tanti, per la 54enne Gloria Marconi (La Galla) che ha avuto la meglio per solo 1’11” su Michela Tognarini (MDS) e per 3 minuti su Vittoria Vandelli. 132 i classificati, tra cui ben 42 donne: quando è arrivata la “Scopa” capitanata da Lolo Tiozzo (classe 1945, foto 6 prima della partenza, 21-22 al traguardo), per Enrico Mussini e Ginetta Palandri erano passate 2h54 sulle 3 concesse.

In 2h20 era arrivata (foto 18) una delle mie antiche maestre di podismo (oggi dedita soprattutto allo yoga), “la Cry” alias Cristina Orlandi da San Michele dei Mucchietti, che alla partenza esibiva con orgoglio il suo nipotino. Un po’ più svelto (2h05) aveva dovuto chiudere Giancarlo Greco, una volta appreso in extremis che il suo Sassuolo (cui è abbonato) giocava alle 15. Ma sì dai, calcolando due ore di viaggio, dovresti avercela fatta, anche se il risultato finale non è stato di tuo gradimento. Per tutti, una caratteristica medaglia intagliata in legno, e per i più fortunati il bacio della Miss d’arrivo Alessandra Fava (foto 17).

C’ero anch’io, con una certa cautela pensando al passato e all’immediato futuro (il Gps dice che la misura media del mio passo è stata di 75 cm), e posso dire di non aver mai visto un tracciato (primi 5 km piuttosto ‘trail’, gli altri in prevalenza su carraie e antiche strade più o meno ducali) segnato come questo: tra bandelle, frecce di mezzo metro agli alberi e arancioni sul terreno, e bolli arancioni sui sassi, dico che se ce n’era la metà sarebbe stato già abbastanza. Se posso muovere un appunto, direi che la “scorrevolezza” del percorso avrebbe potuto aprire la via all’ammissione dei non competitivi, come usava da queste parti ai tempi del Mac (intendo colui che per primo ha valorizzato podisticamente la zona di S. Anna). Invece, qua erano ammessi solo i “vidimati”, addirittura con obbligo di esibire il certificato medico sebbene le nostre tessere testimonino che il certificato già c’è. Se non altro, per chi correva i 16 non esisteva quel “materiale obbligatorio” da portarsi dietro, che a volte costituisce un motivo per esosi controlli prima e durante la gara.

Due ristori, più quello vario e abbondante al traguardo, sono decisamente il top (una settimana fa, sui 18 km di Verbania, ce n’era solo uno); notevole che al secondo ristoro, la Luana che lo gestiva (foto 12) teneva da parte due bottiglie del suo bianco per chi… le era simpatico; e al traguardo, fin che ce n’è stata, si poteva bere anche birra per mandar giù pizzette, gnocco e torte casalinghe. Non è adulazione dire che c’è la mano dell’organizzatore-capo Checco Misley di Mud&Snow, col suo staff (vedi anche foto 20) tra cui segnalo la bella ed efficiente Alessia (senza far torto ad altri).

Forse per una favorevole combinazione di orari (essendo arrivato praticamente insieme ai primi del percorso lungo, che erano partiti un'ora prima) ho trovato persino le docce calde, entrandoci subito dopo Simukeka che si è gentilmente prestato a foto en deshabillé (27-28).

Notevole, e decisamente diversa dal solito, la conduzione microfonica di Gilberto Zorat (foto 4 e 9), che spaziava dal tecnico al sentimental-metafisico (con una sola escursione pratica quando ha esortato ad “aprire il cane”, cioè aprire le portiere di un’auto al cui interno stava un cane), dirigendo sapientemente anche Fabio il cantante, talmente bravo nel proporci i classici del rock & pop che, se non l’avessi visto cantare, avrei creduto che mettesse su i dischi.

Insomma, mentre i tetri economisti e i giornalisti la cui cultura si estende al massimo ai titoli di film, insistono nel deprecare la “tempesta perfetta” che ci attornierebbe, io oso dire che questa di S. Anna è stata la giornata perfetta.

 

4 ottobre - È San Francesco, Patrono d’Italia; qualche decennio fa era festa nazionale, adesso non più (c’era da ridurre le feste per incrementare la produttività, ma salvando quelle ‘politiche’), cosicché pochi hanno in mente la ricorrenza. Pochi (al di fuori degli scolari) anche a Bologna, dove oggi si celebrerebbe il santo Patrono, e fino a una ventina d’anni fa si correva la 50 km Bologna-Zocca, ora presso che dimenticata.

Non da “Vito” Alberghini però, ultramaratoneta di lunghissimo corso, e da una vita (56 anni) panettiere a Modena, che questa ultramaratona l’ha fatta due volte, ma quasi come allenamento, rispetto ai suoi dieci “Passatore” (miglior tempo 11h15; il doppio l’ultima volta...), o alla maratona corsa in 3h09 a Ferrara sotto la guida di Gigliotti, o alla Corrida di San Geminiano in 52:37, per non dire della 100 km su 250 giri di pista (a San Romolo, sopra Sanremo)…

Ma Vito (all’anagrafe Settimo, perché tale fu, di 9 figli complessivi), e Francesco in memoria del nonno, ha un altro motivo per non dimenticare il giorno di San Francesco (come non lo dimentica la moglie Francesca, pure lei panettiera, per 12 anni titolare anche di uno stand al mercato centrale, e sposata da 52 anni): perché ogni anno, questo 4 ottobre mattina, regala un filone del suo pane ai bisognosi (abitudine che si aggiunge a quella quotidiana di donare il pane avanzato ogni sera ai poveri della vicina abbazia benedettina di San Pietro).

Lo faccio – dice al sottoscritto, vecchio compagno e rivale di corsa e di sfottò – ricordandomi di quando, bambino a Cento di Ferrara (dove stavo in via Marescalca, segno del destino per l’inevitabile incontro sulle strade coll’omonimo Michele), poi a Modena, con la mamma bussavo alle porte altrui chiedendo, non soldi, ma farina, latte, uova per farci il pane e magari lo zucchero per qualche dolcino.

A 11 anni cominciò a fare il pane professionalmente: lo ricordiamo in gran spolvero nella bottega di viale Moreali, quartiere Sant’Agnese, dove la sua iniziativa di sfornare pane, pizza e dolci (i mitici bomboloni) e altro, ogni sera alle 23,30, aveva creato una happy hour tale da provocare intasamenti per la grande affluenza di giovani, fino alle 5,30. Si è poi trasferito a poche centinaia di metri, nella via Vignolese  (seminascosto da un Conad cui i suoi clienti contendono lo smilzo parcheggio), e mantiene l’happy hour al sabato e domenica.

- Ma i ragazzi vengono anche in altri giorni; tanto, io dalle 3 sono lì a impastare e cuocere, tutti prodotti tipici modenesi, bensoni con la marmellata, amaretti, stria ripiena, pasta fresca, tortellini fatti a mano passandoci in mezzo il dito mignolo: abbiamo insegnato il mestiere  anche a nostra figlia Annalisa, e chissà che qualcuno dei nipoti non voglia metterci il ditino anche lui…

Il discorso scivola sul podismo, che è stato per decenni la nostra ragione di vita comune: ma la Nove Colli l’hai mai finita?

- No, mi ci provai una settimana dopo il Passatore, e dovetti ritirarmi al 199° km (dieci km dalla fine…), e tu mi prendevi in giro mentre correvamo la maratona di Ferrara su pista…

- Da vergognarsi! Ma ne sono stato punito: dieci giorni dopo quella maratona mi è venuta un’ulcera pazzesca. Però anche tu, non eri male quanto a sfottò: ricordi quella volta che al Giro a tappe di Carpi raggiungemmo il povero Ermete, e tu lo prendesti in giro “Non ti vergogni a farti raggiungere da uno scarso come Marri?” (che era uno sfottò a due in un colpo solo).

-Bei tempi comunque: e tu che avevi promesso di non correre mai gare dove fossi costretto a camminare...? Adesso ho messo le scarpette da parte, un po’ per il mal di schiena, molto perché mi è passata la voglia. Però appena ho smesso mi sono venute quattro ernie…

-Forse faresti bene a riprendere le corse…

Ma quest’ultima frase non la sente nemmeno: è già nel retrobottega a infarinarsi le mani. Si avvicina l’ora di chiusura, stasera niente happy hour ma ci sarà ancora qualche bisognoso cui alleviare i morsi della fame.

Buon San Francesco, Vito.

Verbania, 1° ottobre – Non ricordo mai, in oltre mezzo secolo che bazzico questo sport, un primo arrivato che termina un’ora e 50 minuti davanti al secondo (il mio defunto padre citava un nostro compatriota che agli albori del ciclismo vinse una gara lungo l’Europa con mezza giornata di vantaggio, ma col grosso sospetto che avesse corso… dietro motori). Qui ovviamente i motori non c’entravano, e il live tracking assicura che Erland Akra Eldrup, classe 1992, è un mostro, capace di prevalere negli 81 km del tracciato più lungo, con 5200 metri di dislivello e quota massima innevata a 2166 metri, in 9.24:41, mentre il secondo, Gabriele Teodorani, romagnolo classe 1985, è arrivato in 11.15:09, quasi in volata (un minuto e mezzo) sul più giovane altoatesino Thomas Eichbichler.

Al sesto posto assoluto, primo femminile, è giunta Denise Sacco in 11:55:17, quasi un’ora davanti a Giulia Zanovello; mentre terza è giunta un’altra norvegese, Maria Erichsen, dopo un’altra abbondante mezz’ora. 60 gli arrivati, di fronte a 105 iscritti: un calo rispetto agli 82 finisher del 2021, ma va notato che quest’anno c’era l’alternativa di un nuovo percorso, di 52 km +3100 D e quota massima a 1500 metri, che da 79 iscritti ne ha ritrovati 65 al traguardo.

Ha vinto Filippo Canetta in 6.13:48, con 9 minuti su Lorenzo Aimar; tra le donne, nessuna insidia per Marta Poretti prima in 7.32:49.

Confermato il percorso dei 37 km +2100 D: qui sono arrivati in 104 su 121, regolati da Alberto Pieropan in 3.43:59. La classifica dei primi 5 mostra l’internazionalità della gara: secondo a sei minuti il danese Anders Poul, terzo l’italiano Saverio Ottolini, seguito dal francese Pierre Jaoumouillé e dallo svizzero Beat Neff. Sportivamente impegnativo il cognome della vincitrice, Elena Platini (peraltro, italiana, come da famiglia originaria piemontese, 4.27:10), quasi mezz’ora sull’altra piemontese Silvia Guenzani.

Infine, i 18 km (che coincidevano col tratto finale delle altre gare), in linea da Cànnero Riviera a Verbania, sostanzialmente sul lungolago tra i 190 metri della partenza/arrivo e i 465 del punto più alto a metà gara: dislivello dichiarato di 700 metri, che secondo il mio Gps appaiono 800, ma con distanza limata a 17,250. È il percorso che ha raccolto più proseliti, 173 arrivati competitivi più 28 non competitivi: è una bella idea, da pochi organizzatori praticata, quella di accogliere anche i non competitivi, vale a dire quelli che non soggiacciono alle esose leggi italiane dei certificati medici. Noto che in classifica sono presenti ben 18 concorrenti dagli USA, moltissime donne (Catherine, Sarah, Lindsay…), che appunto non sono obbligate alle trafile medico-burocratiche nostrane: la bella biondina longilinea Erin (che potrebbe essere mia figlia) mi supera all’ingresso finale in Verbania e, anche approfittando del tracciato un po’ incerto tra lo struscio e l’aperitivo del tramonto, alla fine mi darà 26 secondi. Mi accontento di arrivare col tedescone da Stoccarda Stefan Lendermann, con cui avevamo corso a vista dall’ultima cima del km 11 fino al traguardo, fotografandoci vicendevolmente: non era giusto sprintare, e le foto mediate dall’organizzazione (un po’ carucce) ci mostrano esattamente affiancati, la mia mano destra e la sua sinistra unite, anche se la classifica ufficiale ci separa di un irrealistico secondo (portando il mio 2.52:14:39 a 2.52:15, con un arrotondamento al decimale superiore che neanche l’ufficio tasse pratica).

Ma non cerchiamo il pelo nell’uovo: in fondo, eravamo partecipi marginali di una gara di contorno, sebbene godibile e bellissima, probabilmente tutta corribile dal momento che il vincitore Luca Levati ha registrato 1.25:32, con una rimonta nel tratto in discesa se è vero che al rilevamento intermedio (ristoro del km 9, alla seconda delle tre salite principali) era 5 secondi dietro Marco Vittone, finito però solo settimo evidentemente per qualche guaio; così al posto d’onore è Paolo Boneschi, a 1’10” dal primo. Prima donna, Simona Cargnino in 1.40:41, un quarto d’ora sulla seconda, Valeria Baldoni.

Dicevo della gara in linea, l’unica non partita da Verbania ma da Cànnero Riviera, più vicina al confine svizzero, esattamente da un parco sulla riva, dedicato al walking. Trasporto su tre pullman, abbastanza stracarichi (le mascherine, ovviamente, sono un ricordo del passato), e sbarco un’abbondante ora prima del via fissato per le 16,30 in modo da consentire per le 21 (dato l’ampio tmx di 4:30 concesso) la chiusura di tutte le gare.
In realtà, ci sarà larga tolleranza, fino all’ultimo classificato degli 81 km, sopra le 18 ore cioè verso mezzanotte…; mentre le ultime tre arrivate della gara corta, tutte USA, staranno agevolmente sotto le 4 ore: la protrazione degli arrivi giustifica il fatto che al nostro finish non troviamo più la bionda e simpatica speaker che avevamo visto all’opera almeno da mezzogiorno (Mandelli l’ha voluta ricordare nel suo collage, insieme al nostro gruppo di partenti della ‘corta’ e a Cànnero vista dall’alto durante la prima salita, forse la più dura coi suoi 200 metri verticali in 2,5 km).

Percorso, come mostrano anche le foto, con larghi spazi panoramici, in parte acciottolato (e la pioggia caduta in nottata provoca qualche scivolone: peggio per me, che ho voluto portare al loro ultimo viaggio le mie scarpe ricevute come premio dopo un trail di Zoldo nel 2017), in parte scalinato, ben presidiato, e segnalatissimo con qualche falla solo nell’ultimo km (e qui, l’americana, il tedesco e l’italiano si consultano in qualche punto più problematico, risolvendo ogni cosa in pochi secondi, appena adocchiato il segnale successivo e comunque con l’occhio al cupolone del Palaconvegni).

Ci aspettano un ristoro finale molto ricco e vario, comprensivo di maccheroni al pomodoro e di un buono birra da ritirare al bar adiacente (dove, peraltro, si mangia dignitosamente a prezzi onesti); docce calde a 100 metri in linea d’aria dall’arrivo e dal parcheggio auto (grande, ma insufficiente, salvo valersi abusivamente degli spazi riservati allo staff…).

Bella esperienza, che invita ai prossimi appuntamenti in zona: con la Lago Maggiore Marathon di domenica 6 novembre, che prevede la possibilità di iscriversi a quattro distanze, 42km (da Arona a Verbania, sul percorso ritrovato della prima edizione del 16.10.2011, cui il sottoscritto era presente), 33, 21 e 10 km, anche in forma non competitiva.  Poi la Mezza dei due laghi (da Gravellona, in pratica lo sbocco a monte di Verbania) il 5 marzo 2023, e l’altra mezza da Stresa a Verbania il 14 maggio. E infine, la nuova edizione dei nostri trail.

 

25 settembre – Le cifre ufficiali parlano di 804 iscritti, che forse è un record della èra post-Covid; la mia impressione visiva era anche superiore, ma forse dipende dal fatto che quasi tutti hanno aspettato l’orario giusto delle 9 per partire. Sulle presenze avrà influito anche la programmazione, al termine della gara, delle premiazioni di due circuiti provinciali modenesi: anche se il buon Pivetti è stato costretto a ripetere qualche volta il ritornello del nostro compatriota Nek Neviani, “Laura non c’è”, di fronte all’assenza di supervincitrici seriali che forse oggi puntavano ad altri prosciutti. Va detto che a una quarantina di km da qua c’era una mezza reggiana di lunga data e prestigio, e dunque qualcuno di là dal Secchia avrà preferito non passare il confine (ma Simona Garavaldi, scandianese qui a premio, e il prof Leandro Gualandri della Liguria reggiana hanno invece scelto il Torrazzo, come il sottoscritto del resto, che trova esagerata la richiesta di 15 euro per la distanza dei 21 reggiani, mentre per le distanze minori ne volevano comunque 3).

Les chauffeurs sont les chaffeurs, diceva Totò; al Torrazzo sono stati fermi sulla quota minima di 2 euro, in cambio dei quali ci sono toccati mezzo kg di pasta e una confezione di tre piade (non so Luigi Luca come si sarebbe comportato). Ma un'amica mi segnala la mancanza di ristoro solido al traguardo: la risposta è che le norme-Covid lo impedirebbero. Ecco gli effetti del terrorismo virologico.

Il percorso è quello risaputo, in sostanza un avant-indré su due stradelli paralleli, tra Modena e i confini di Bastiglia, costeggiando la montagna del rusco e l’alta velocità che la attraversa (mentre tra Torino, Milano e Modena l’AV è un rettilineo parallelo all’A4 e poi A1, dove si fanno i trecento come niente, quando il binario entra in provincia di Modena, per dirigerlo su Bologna gli fanno fare un curvone per non toccare obiettivi, ehm ehm, protetti; cui segue un controcurvone che lo riporta quasi sulla retta via, dopo aver comunque sprecato 3 o 4 km e toccato, appunto, la collina del disonore).

Tornando al nostro oggi, c’è abbondanza di scelta, su ben 5 percorsi fra i 3,8 e i 15 (in sostanza, dallo stradello diretto verso nord si staccano, uno dopo l’altro, delle stradette perpendicolari che dopo 3-400 metri immettono sulla ex ferrovia di Mirandola, uno dei percorsi più frequentati dal podismo modenese, e riportano verso la casa-base; quel campetto dove quarant’anni fa la mia compagnia si ritrovava, alle 14,30 di ogni sabato – fosse Natale o Ferragosto - per le tre partite rituali, a chi arrivava prima a farne cinque). Monotonia paesaggistica (appena temperata da quella dolce nebbiolina che sfuma le visioni) vinta da un paio di varianti obbligatorie: una all’inizio, per attraversare il “Parco Torrazzi”, nome abbastanza pretenzioso per un pratone che (citando ancora Totò) “si farà, si farà”, al margine di una delle zone più brutalmente industrializzate di Modena; e un’altra variante alla fine, quando per 500 metri ci fanno uscire e poi rientrare sull’ex ferrovia, il cui sottoprodotto più nostalgico è il passaggio dalla casa di Rossano Brevini, il brevilineo – come dice il nome – nostro compagno di tante trasferte maratoniche all’estero sui pullman guidati da Alfonso e dove l’esattore era Govi. Adesso sfodera un paio di baffoni, e sarà cresciuto un … paio d’etti, ma ha dimenticato il vino bianco del suo ristoro per gli amici. Ci sarà un’altra occasione? Ruit hora, amice noster, sunt certi denique fines...

Molte le vecchie glorie anche in campo: viene perfino Ferracini, classe 1938, il mio modello degli anni Ottanta, quando (con Bertolani junior della Rocca e Vittorio della Modenese) cercavamo di sfondare il muro dell’ora nella Corrida, e dell’ora e mezzo nella maratonina di Formigine (che arriva, arriva, e Reginato sta già allenandosi per lo speakeraggio).

Qualche segnale di novità vedo dalle tante ragazze, prevalentemente targate Runners & Friends cioè vigilate da Mohammed Moro; impietoso, ma sportivamente ineccepibile, il sorpasso che l’elegantissima dietologa nonché woman-in-run Chiara Mezzetti mi infligge a 3-4 km dalla fine. E alla tenda, dopo l’arrivo, si segue in diretta la maratona di Berlino: la passione è là.

In partenza avevo assistito a un dibattito tra vèci (come me), il sempiterno Lupo e il presidente di una delle società più storiche e tradizionali, direi roncaratiane, del podismo (uno di quelli che contavano di più nell’alias definito Coordinamento Pensionistico). Oggetto del contendere era la spaccatura, domenica scorsa, del podismo modenese tra la competitiva di San Donnino e una tapasciata sulle collinette sopra Sassuolo, che a parere del Presidente era preferibile, perché aperta a tutti, non classista e selettiva insomma. La replica del Lupo è stata: alla gara di San Donnino c’erano 80 bambini, dove li trovi tu nelle tue corse aperte a tutti? Se vogliamo che il podismo sopravviva, dobbiamo puntare su questi 80 bambini, perché gli altri… Come mi diceva poco dopo un altro presidente storico, “quasi tutti i miei iscritti sono semplicemente spariti: col Covid hanno imparato a fare altre cose, magari si vedono in 3 o 4 a camminare per i colli, e chi glielo fa fare di venire al Torrazzo a spendere 2 euro?”.

Sui bambini che in età adulta continuano a correre ho qualche dubbio, avendo assistito a padri e madri schiaviste (tipo i genitori dei tennisti) che li obbligavano a venire anche controvoglia, col risultato che, raggiunta l’età della ragione, i bambini-schiavi sono spariti; mi ispirano più fiducia le ragazze tra i 20 e i 35 che oggi ho visto correre in simpatica compagnia: è la loro scoperta matura dello sport, quella che durerà. Ma così è se vi pare: gli 800 del Torrazzo (e magari i 100 o 200 portoghesi: qualche habituè del “mè an pegh ménga” si è intravisto) sono molti, ma sono anche pochi. Decidete voi su quale parte del bicchiere indirizzare le vostre meditazioni.

22 settembre – Nell’ultimo giorno dell’estate astronomica, eccoci a un’altra “podistica di confine” (poche settimane dopo quelle di Bosco Albergati e S. Maria in Strada). Siamo ancora al lembo estremo della provincia di Modena, da quando nel 1929 il comune di Castelfranco (cui Manzolino appartiene) venne distaccato dalla provincia di Bologna e aggregato a quella di Modena (e poi dicono che “il fascismo ha fatto anche delle cose buone”…); ma siamo sempre in una situazione mista, dove in campo religioso comanda la diocesi di Bologna, e in dialetto dicono spàisa e dulàur circa come sotto le Due Torri. Per stare nel sicuro, Guareschi ai tempi di don Camillo chiamava il territorio “Messico d’Italia”, mentre la denominazione che si sente talora anche oggi è “triangolo della morte con vertici il capoluogo di Castelfranco Emilia e le sue frazioni di Manzolino e Piumazzo” perché (cito Wikipedia) ”la zona fu insanguinata dalle uccisioni, per opera di bande organizzate di partigiani comunisti, di ex appartenenti al disciolto Partito Fascista, di civili e di sacerdoti cattolici. I responsabili delle esecuzioni, che non rientrarono tra i beneficiari dei casi previsti dall'amnistia di Togliatti, riuscirono a fuggire oltre la Cortina di Ferro”.

Ma poi è cambiato (quasi) tutto: negli anni Settanta, Manzolino fu sede di uno dei più grandi tornei estivi in regione, organizzato dal vigile Cristoni sul campo parrocchiale da 7; ci giocavano, sotto pseudonimo, anche campioni della serie A, e l’arbitro (pagato la cifra, favolosa per i tempi, di lire tremila) faceva finta di non vedere che col documento d’identità di Cavedoni Celestino si presentava, che so, Ruben Merighi. E di Cristoni “il vecchio” (da non confondere con un vigile omonimo più recente), un arbitro-bottegaio raccontava che, inviperito per un rigore datogli contro, tutte le sere si presentava al suo negozio un minuto dopo l’orario di chiusura affibbiandogli la multa per violazione dei limiti consentiti.

Adesso, secondo la stessa Wikipedia, sarebbe la residenza del bestsellerista Valerio Massimo Manfredi (originario di Piumazzo, qui vicino), che dal tempo dello Scudo di Talos (affibbiato come lettura scolastica obbligatoria a mio figlio, allora liceale e che da quei tempi è uno dei massimi detrattori di VMM) ha sfornato una serie di libroni storici all’americana, virando però sulla descrizione di questi luoghi in Otel Bruni. Confesso la mia ignoranza: a parte una cinquantina di pagine de L’ultima legione, che lessi in una biblioteca di montagna mentre stavo attendendo il mio turno alla postazione internet (50 pagine che dicevano quello che si poteva dire benissimo in 5), non ho letto altro; ma se mai, rassegnandomi alla dissipazione del mio tempo, decidessi di abbeverarmi a VMM, lo farei con Otel Bruni.

Nell’attesa, sono tornato a Manzolino, tutta pavesata per il suo palio dei quartieri al cui interno si svolge anche la nostra garetta, e a quel campo da sette del Torneo, con le tende delle società finalmente tornate ad affollarlo: come sempre, la prima come ubicazione e come numero di iscritti è la Cittanova di Peppino Valentini (foto 5 e 6), che con 57 pettorali si aggiudicherà il primo posto di società davanti alla bolognese Monte San Pietro e ai quasi-padroni di casa di Castelfranco, col duo Carmela-Fabietto (foto 13 con Luca Gelati supermaratoneta delle Basse) e lo storico Danio in evidenza.

Gli organizzatori dichiarano circa 400 iscritti, che per una non competitiva infrasettimanale come questa sono una cifra prodigiosa; precisando però, come spiega subito Giuseppe Cuoghi (un altro di casa, foto 14), che la distribuzione, insieme al pettorale, di braccialetti luminosi, dipende dal fatto che la maggior parte sono camminatori dei quali si prevede l’arrivo quando sarà già buio. Esagerati! I due percorsi, come aggiunge Cuoghi che ha messo giù le frecce, sono “quello corto che è lungo e quello lungo che è corto”, cioè i 3 km dichiarati sono 4, e i 7 del giro “lungo” sono 6,2, e neanche camminando all’indietro si arriverebbe dopo il tramonto, anche se si avesse l’idea di anticipare la partenza rispetto alle 18,15 ufficiali.

All’ora del via siamo infatti almeno un centinaio, tra cui emergono le fattezze di Morena Baldini (foto 4 e seguenti), venuta qui solo per camminare e che invece correrà a discreto ritmo e alla fine si sottoporrà, come tutti (foto 7-8-9) alla coda per ritirare l’ambito gnocco fritto omaggio. Mentre sul lato destro della foto di copertina vedete di schiena Giangi che si intrattiene, prima del via, con Marco Belli. Stranamente, manca Lucio ed è davvero una rarità: c’è però Luigi Luca che racconta di quando lui e un suo amico, venuti da soli a una corsa di questo tipo, comprarono 50 pettorali aggiudicandosi 50 bottiglie di vino il cui valore era molto superiore, e vincendo anche un premio come gruppo numeroso.

L’iscrizione qui era calmierata alla quota minimissima di 2 euro, tutti destinati in beneficenza, e dava diritto anche a una mascherina chirurgica lavabile fino a 20 volte: forse sufficienti per il tempo di residua permanenza al governo di Speranza e delle sue virostar.

I percorsi (“percosti” secondo il volantino), superata la cintura di ferro delle linee ferroviarie, diventano piacevolmente campestri, prima su stradello ben tracciato in un bosco spontaneo, poi nell’ attrezzato parco del “laghetto delle oche”, una Campogalliano in sedicesimo, dove riceviamo un ristoro sigillato (acqua ed eccellente frutta secca). All’uscita si va verso il centro, con un ghirigoro tra i vari quartieri fin troppo protetto dai vigili (quando, mezz’ora dopo, prenderò la strada del ritorno, sarò trattenuto vari minuti a un incrocio dove stanno arrivando camminatori isolati, uno ogni cinquanta metri).

E’ lì che vedo un altro redivivo del podismo, il leggendario Broccoli, l’ultimo artigiano delle molle (quando smise lui, chiuse anche la ditta dove lavorava) intento a scrutare con attenzione i cassonetti. Gli ricordo di quando arrivava ai traguardi delle maratone indossando anche dieci canotte raccolte per strada, ma lui mi corregge: a Firenze ne ho prese 20, e quando me le sono tolte al traguardo, la gente mi guardava stupefatta.

Arriviamo, troppo presto ahimè come diceva la sorella di Marino Moretti a Cesena: sul palco, gli intrattenitori procedono alle premiazioni infilzando battute al cui confronto Brighenti merita il Nobel in letteratura (ma viva il parroco, siamo pur sempre alla corsa dei “somari”!); in compenso, la band Futura Republic accenna maestrevolmente motivi di Lucio Dalla.

Settembre, andiamo: è tempo di migrare. Tra gli arrivederci alle gare del prossimo fine settimana, e gli annunci di più ambiziosi programmi maratoneschi (Gelati farà una maratona alla settimana, e forse più), ci lasciamo consci che l’autunno presenterà conti non tutti facili da risolvere.

18 settembre – 169 classificati, di cui 40 donne, e prestazioni cronometriche di ottimo livello in questa gara Fidal Bronze organizzata dai Modena Runners, che ha radunato quasi il meglio dello stradismo regionale e non solo. I primi 8 della classifica assoluta sono compresi tra il 30:20 (questa volta l’aggettivo “incredibile” non è sprecato) del vincitore Azeddine Majdoubi, ventisettenne del Circolo Minerva, e i 31:18 di Davide Uccellari (MDS). Tra loro, una successione alternata quasi perfetta di italiani e magrebini: 2°, a 13 secondi, il ventunenne Giuseppe Gravante (Corradini), 3° il 45enne Mohamed Benchelaih (Celtic Druid) a 22 secondi: nel primo dei due passaggi dal traguardo era staccato di appena 2 secondi dal capintesta, ma ha pagato lo sforzo cedendo nettamente nel secondo giro, dove ha realizzato solo il sesto parziale. Seguono Federico Rondoni (Corradini), che invece ha fatto registrare il negative split più vistoso, migliorandosi di 18 secondi e finendo a 31 minuti netti; poi l’altro Celtic Moslim Labouiti (31:05).

Tra le donne, tripletta della Corradini, con la favorita Fiorenza Pierli, una 42enne che nel secondo giro, migliorandosi di quasi un minuto, con 36:58 ha inflitto 39” di distacco dalla compagna Sara Nestola, che ha la metà dei suoi anni, e pur migliorandosi di 4” nel secondo giro, ha dovuto accontentarsi del posto d’onore, con quasi un minuto sulla terza, Francesca Cocchi.

Tra i piazzati di categoria, segnalo i successi di Rosa Alfieri (52enne, Minerva), non solo prima delle F 50 con distacco abissale, ma quinta assoluta, dietro Ioana Lucaci e davanti a Francesca Giacobazzi, entrambe con una ventina d’anni in meno; di Carmen Pigoni (MDS, 59 anni, se si può dire), prima F 55 con 46:50 in virtù di due frazioni quasi uguali; di Barbara Bonini che ha vinto tra le F 60 con 48:24, facendo molto meglio nel secondo giro.

Tra gli uomini, onore al 43enne Taoufik Bazhar (Minerva) primo M 40 con 31:56 (anche per lui, secondo giro più veloce di 16”); come di 28” si è migliorato da una tornata all’altra Fabio Dondi  (Castellarano), arci-primo M 55 con 37:10; al sempreverde Stefano Baraldini, vincitore tra gli M 60 in 39:55, pochi secondi davanti al primo degli M 65, Aris Giordani (Celtic Druid, 40:17).

 

Mattinata fresca e soleggiata, con leggera brezza contraria nel tratto ascendente; percorso con lunghi rettilinei e curve secche, assolutamente chiuso al traffico, come è stato anche per le gare delle categorie giovanili svoltesi dopo le premiazioni dei ‘grandi’. È stato un piacere incrociare campioni del recente passato, e in parte anche del presente, come il Medici da Carpi e il Bianchi da Pavullo, mentre guidavano bei gruppetti di giovanissimi, su percorsi tra i 400 e i 1000 metri, combattuti strenuamente e alla fine premiati secondo piazzamento (come secondo piazzamento, e non sulla base del solo numero degli iscritti, è stata la classifica delle società).

Organizzazione degna dell’etichetta bronze, con punti di forza non solo nel cronometraggio diretto da Vincenzo Mandile, ma anche nell’ordinatissimo parcheggio a fianco della zona operazioni, nel ristoro abbondante e vario (a “piano terra” con l’esuberanza allegra dell’Alessandra, e col top servito nel top della struttura, ovvero il party al pignoletto disciplinato da Enrico Zanella e Alessio Abbati), nei premi decisamente ricchi, nel servizio vocale impeccabile di Roberto Brighenti (uno dei pochi per il quale “Formica atomica” richiama Sebastian Giovinco, e diffidare delle imitazioni; anzi, visto che il FestivalFilosofia ha appena annunciato “Parola” come tema della prossima kermesse, perché non chiamare lui, principe della parola, invece dei furbacchioni alla Saviano o dei soliti filosofi bolsi e faziosi che imperversano da decenni?).
Insomma, tornando a San Donnino e con rispetto parlando, sono lontani i tempi di quando, in queste contrade, lo specchietto di un improbabile ritorno di Gianni Morandi serviva da richiamo per un raduno pressoché non competitivo; più che mai in questi tempi calamitosi, c’è bisogno di professionalità e di pianificazione ‘industriale’, come Alberto Cattini e i suoi Modena Runners hanno dimostrato.

17 settembre – Da ieri a oggi, 15 gradi in meno, terra bagnata, alberi profumati, e per noi podisti di rango medio-basso è tempo di lasciare le canotte e partire con le mezze maniche, anche alle 16 quando è prevista, sotto il sole e un cielo quasi limpido, la partenza di questa gara ormai classica.

A occhio, saremo un centinaio al via regolare, ma le iscrizioni dichiarate sono 240 (50 in più di sabato scorso a Sassuolo), e molti camminatori sono già andati, non volendo rinunciare al percorso collinare panoramico di 9 km (in realtà 8), con oltre 200 metri di dislivello nella salita verso Villabianca: paesello dove era posto il traguardo di una gara a cronometro da Castelvetro, molti anni fa, e dove pure si passava in una delle primissime corse della provincia, Da la zresa al lambrusc ossia da Vignola appunto a Castelvetro, giugno 1972.

Uno dei reduci di quella gara, il vignolese Bruno Monelli, è presente come sempre; come non può mancare Lucio Casali (se non c’è lui, quasi quasi la gara non si fa: lo vedete chiudere il gruppetto nell’immagine di copertina scelta da Mandelli per il servizio fotografico, dietro il compagno di squadra Paolo Cavazzuti); ed è sceso dai suoi monti perfino Micio Cenci, che inalbera la maglietta un po’ sbiadita della trail-marathon del Liechtenstein dove fummo assieme … soltanto 13 anni fa. Penso che non gli dispiacerebbe l’appellativo di Formica Atomica, che il Corrierone ha rispolverato impropriamente per la ginnasta (ehm) Sofia Raffaeli, ignorando un certo Sebastian Giovinco (ma se i giornalisti sapessero le cose che scrivono – diceva un antico sindaco e uomo di sport di Vignola – non avrebbero più niente da scrivere).

Ovviamente al completo le famiglie di Paolino Malavasi, del citato Cenci, di Simona Rossetto (quasi tutti in foto 5), dei Vecchié, dei Bellentani, dei Valentini e della sempre sorridente Sonia Del Carlo, e chissà quante altre in comunione affettiva e sportiva; da Sassuolo è venuta in bici Cecilia Gandolfi (“sono solo 24 km!”: foto 2, e foto 3 con Micio), non imitata quanto a mezzo di trasporto dalla sorella Margherita e dal coniuge Italo, che da automunito mette però a disposizione alcune delle sue foto (nella didascalia non c’era posto, ma credete che delle 22 foto in Gallery, 5 sono sue). Per tutti, il rientro a casa avviene in tempo utile per assistere alla vittoria al 93’ del Sassuolo a Torino: e che Urbano Cairo vada pure a farsi consolare da Lilly Gruber e Giovanni Floris. Dal reggiano, i fedelissimi Paolo Giaroli (foto 6) e Simona Garavaldi: anche la loro mancanza indurrebbe seri motivi di riflessione negli organizzatori. Ma c’è perfino una presenza germanica, Frau Lieber aus Berlin-Dresden, innamorata del nostro Muratori e un pochino anche di Ludovico Castelvetro.

Il giro, ripeto, è un classico, ma resta sempre bello, perlomeno nei primi 6 km, col culmine per i buongustai al km 4,7, quasi al culmine della salita, dove la fattoria Roli (foto 17) ha allestito un ristoro dove il Principale versa personalmente nei bicchieri dei podisti il suo squisito Grasparossa. Rambo lo disdegna, ma io ne prendo due sorsate, e Giaroli, che nella salita mi era rimasto un po’ indietro, dopo averne bevuto un bicchiere (cardiotonico ideale) trova immediatamente la forza di raggiungermi e fare con me, alla media complessiva di 7:15/km, il resto del tracciato (gli ultimi 2 km sono cambiati dai tempi d’oro, e sinceramente meno godibili), rievocando glorie del passato e rivolgendo un grato ricordo a Giancarlo Bellodi, co-fondatore mezzo secolo fa della Sgambada di Mirandola, e scomparso da pochi giorni. A noi vecchi habitués si aggiungono alcune gradevoli presenze giovanili di sesso femminile (si può dire ancora, o contraddice qualche legge di correttezza politica prescritta nel contemporaneo festival filosofia?): sembrano due veline, una bionda e una mora, quelle che ci arrivano appena davanti.

Si termina nell’impianto sportivo, certamente la ressa è minore dei tempi antecovid (credo sia la prima volta che trovo parcheggio nella piazza antistante), ma siamo certamente di più di quella volta che una guerra interfrazionale mise in svolgimento contemporaneo un’altra gara nella vicinissima Solignano. Iscrizione al nuovo “tetto” di 2,50, pacco gara di biscotti e pasta, oltre a buono sconto per acquisto di sottaceti e altre confezioni: la sagra del lambrusco (anticipata di una settimana causa elezioni) ha prodotto qualcosa di positivo anche per noi pedatori. Sperando che la prossima volta il signor Roli, vista la quantità dei concorrenti, debba stappare qualche bottiglia in più.

10-11 settembre – Il fine settimana modenese, come sempre minacciato da un maltempo che sta solo nelle Sacre Scritture dei Corazzon e Bruscagin, è parso insolitamente ricco di offerta nel campo delle non-competitive o (come le si chiamavano nei primi tempi, “maratone popolari”). Correre al sabato e domenica era cosa che capitava prima del Covid; e stando al calendario, andrà ancora meglio nella settimana appena cominciata, con appuntamenti nel modenese mercoledì, venerdì, sabato e domenica.

Ma forse gli indigeni non se ne danno ancora per intesi, cosicché i numeri stentano a decollare; oppure bisognerà rassegnarsi a quantità meno reboanti: un po’ come i giornaloni che si sono adattati a vendere 150mila copie al giorno se va bene, mentre vent’anni fa arrivavano a 700mila, eppure nei talkshow continuano a pontificare come facevano vent’anni fa; e Massimo Giannini, romano costretto a tifare Juventus per ossequio alla Razza Padrona, buca lo schermo a getto continuo senza far sapere che da quando è direttore la sua testata vende diecimila copie in meno, e rispetto a otto anni fa ha dimezzato la tiratura.

Insomma, mal comune mezzo gaudio; o piuttosto, rassegnamoci che le vacche grasse, se mai ci sono state, adesso sono alquanto dimagrite; anche le vacche podistiche.

Eccoci comunque, fiduciosi, sabato 10 alla periferia nord di Sassuolo per la quarta edizione del Corri in Croce Blu (ripresa dopo chissà quanti anni di interruzione), che ripercorre le zone di un’antica gara abbinata a un festival del giornale oggi arrivato alla fatale quota di zero lettori, e in un certo senso prende le veci di un’altra corsa, a breve distanza, abbinata a una sagra parrocchiale, e che addirittura si permetteva il lusso di un Brighenti speaker.

Adesso fa quasi tutto la famiglia Casolari con la podistica Sassolese, ovviamente col supporto dell’associazione cui è intitolata la gara, e basta un altoparlante a pile per comunicare l’essenziale.

Le 15,30 sono decisamente presto per correre in questa stagione, e all’orario ufficiale saremo, a dir molto, una cinquantina. Da elogiare il fermo proposito di non propinare il ristoro finale né distribuire il premio-gara prima che sia trascorso un quarto d’ora dal via: è il minimo sindacale per arginare il malvezzo dei giri attorno all’isolato camuffati da corse.

Il totale degli iscritti arriva a 190, stesso numero della Badia bolognese del giorno prima: forse solo Lucio ha partecipato a entrambe. Da notare anche come la quota di iscrizione sia bloccata alla ‘vecchia’ cifra dei 2 euro, e i conti sono presto fatti: speriamo che l’austerity in arrivo lasci un angolino di futuro a iniziative benemerite ma un tantino tagliate fuori dai tempi grami.

Percorso gradevole, con un inizio trail fra le brughiere del Secchia e qualche montarozzo di detriti ora inerbati (comunque, meglio non scavare troppo dalle parti di Sassuolo); poi ci si instrada lungo la risaputa ciclabile di destra Secchia, ombrosa fino al casotto dove ante Covid natum si celebravano le spaghettate e grigliate delle società podistiche (sembra un’altra epoca, quando ci veniva Ermanno Fioroni, e tra i più attivi era Giuliano Lamazzi, volontario Pubblica assistenza, scomparso nel 2016 ed al quale oggi è intitolato il “Memorial”). Poi si gira a sinistra per il ritorno, un po’ più assolato, verso l’Ancora e la zona di partenza, con un totale di 6,7 km. Premiazioni di società impostate sul vino, e (come da antica tradizione) il Cittanova è il gruppo più numeroso.

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La truppa non agonistica e non trailer (per gli uni, in zona c’erano le 21 di Parma e di Guastalla, per gli altri le corse di Roteglia e del Lago Santo, su cui preannuncio una chicca da queste colonne) si dà appuntamento domenica mattina, allo strano orario delle 8,45 (8,15 per i camminatori), a qualche km da Campogalliano, per la 12^ Verdelaghi: bel giro grossomodo a forma di 8, prevalentemente sugli argini che separano le province di Modena e Reggio e avrebbero lo scopo di difendere il capoluogo geminiano dalle inondazioni del Secchia (ogni tanto ci va sotto qualche casolare o trattoria della zona, come è sempre stato dai tempi in cui l’argine verso città era regolarmente più alto di quello verso campagna).

Qui gli iscritti sono 650, una bella cifra – direi, la più alta in provincia di tutto l’anno – anche se è meglio non pensare a quanti erano appena tre-quattro anni fa; la quota è passata ai 2,50 euro, come il Coordinamento, obtorto collo, lascia liberi di fare. Non tutti i partecipanti espongono il pettorale, ma abbiamo fiducia che l’abbiano “sotto” (sebbene Gelo Giaroli, che in qualità di bancario sa fare i conti, stima in un centinaio il numero di quelli che si aggirano a sbafo). L’organizzazione è in mano a Gabriele Gualdi e ai suoi, e funziona egregiamente, anche se i parcheggi sono sottodimensionati (per colpa del comune, mica di Gabriele) e costringono chi arriva in auto a una camminata supplementare.

Dei “sassolesi” di ieri rivedo Lucio (anzi, ripeto che per lui è un triplete considerando la Badia di venerdì; mentre Giangi fa solo doppietta perché dopo Badia aveva saltato l’Ancora, dove il metanauto è passato, orrore, da 0,86 a 2,26 al chilo), Pivetti, Rambo Benassi, i coniugi Rossetto, Morena Baldini ed Elisa “Teidina”.

In più, arriva in tutto il suo splendore non artefatto (a differenza della **) la supermaratoneta Greta Massari, 170 maratone ufficialmente riconosciute per un totale di 2650 km percorsi; poco dietro lei appare il consocio Mastrolia, 253 maratone accreditate, a torso nudo ma infinitamente meno sexy di lei (bisognerebbe però chiedere il parere all’altra metà del cielo).

A me fa istruttiva compagnia la presidentessa Emilia Neviani, che trascinandomi a 6’/km lungo i 10,900 del percorso ‘lungo’ mi informa sugli oneri ormai insostenibili per gli organizzatori (cominciati ben prima del Covid, con la circolare Gabrielli dettata dall’onda emotiva delle stragi islamiche in Francia e del caos alla mancata festa juventina per una Champions che non arrivò), sulle gare che alzano bandiera bianca, sulle tristezze per le persone che vengono meno: penso al dottor Franco Furini, medico condotto di Campogalliano, varie presenze a New York, e morto meno di un anno fa, a 67 anni, dopo un investimento subìto in bicicletta.

Sfilano altri ex protagonisti delle 42, ora appagati in più miti consigli: Fabietto da Castelfranco, Ivaldo e William (protagonista, per chi ha la memoria lunga, di uno sprint con Rossano Brevini sulla pista di Klagenfurt all’arrivo della maratona del Woerthersee). C’è anche Micio Cenci, finissimo costruttore di chip (magari, il vostro bancomat ne ingloba uno suo) che dopo tanti ultratrail italo-svizzeri adesso predilige le corse di nicchia, quelle snobbate che alla fine assommano 20 partecipanti; poi il vigile veterano Pavesi da Carpi, e infine Massimo Bedini che sfoggia una divisa da Interforze (a proposito, oggi anche Eugenio Di Prinzio calza le scarpette da corsa).

“Vai tranquillo”, Valentini, che anche oggi il premio del gruppo più numeroso lo incamera la tua Cittanova, con 98 iscritti, davanti alla storica casa-madre della Madonnina (con 60) e al giovane gruppo Run&Fun di Mohamed Moro (54).

Accontentiamoci di quello che viene, del domani non v’è certezza, e forsan et haec olim meminisse iuvabit.

9 settembre – Ci sono più aerei in cielo (avrebbe commentato Amleto se fosse venuto a questa “Badia in festa” 2022), di quanti podisti sulle stradette tra il fu-torrente Samoggia e l’aeroporto di Bologna. L’organizzazione dichiara 190 pettorali venduti, con primo posto di 37 iscritti della società bolognese del Monte San Pietro; alla partenza ufficiale delle 18,30 ci siamo contati in 19, uno solo della società “primatista”. In compenso c’erano il decano Righi del Pontelungo – la cui età si avvicina a quella di Queen Elizabeth, ma la forma è migliore -, il vicedecano Cuoghi che abitando alla Cavazzona qui potrebbe venirci di corsa come riscaldamento, il pivello Giangi che vorrebbe un pricecap al metanauto, e l’uomo-ovunque Lucio Casali da Formigine e dal Cammino di Santiago, che potrebbe forse ambire al titolo di chi viene da più lontano. I bolognesi di città e circondario, insomma, l’hanno data buca; se scendo ai ricordi dell’ultima volta che ero stato qui (2018, venticinque anni dopo la prima edizione cui pure avevo partecipato) mi sovviene il centinaio di presenti al via, che già erano meno rispetto ai tempi d’oro, quando si partiva dopo la benedizione dell’abate.

Oggi, in quest’anno 2022 di poca grazia, non solo non c’era l’abate, ma la chiesa era irrevocabilmente chiusa; e soprattutto, dal punto di vista podistico, mancava Colui che, fin quando era vissuto, aveva animato e gestito questa gara, intendo il già-presidente del coordinamento podistico bolognese, Angelo Pareschi. E mancava pure Alessio Guidi, che l’autolesionismo giustizialista e invidioso rappresentato dai vari MarcMaz e propaggini vesuviane tiene lontano dal mondo delle corse (solo che adesso, il podismo nazionale è deCarlMarcMazzato, nel senso che se Lorsignori si fanno vedere scattano le squalifiche per chiunque selfeggia con loro).

E allora, via per pochi intimi, in un tracciato di 7,3 km che ricorda un po’ altri di corse estive limitrofe di cui il Covid, la crisi del Partitone, la senescenza del movimento hanno fatto perdere le tracce (Calcara, Castelletto, Le Budrie…). Il giro sarebbe perfino godibile, al tramonto assolato di una giornata prevista da allerta meteo e che invece prelude all’avvento di una splendida luna piena: almeno metà è su fondo erboso o sterrato, tra argini e campagne. Il ristoro di metà gara prevede, oltre all’acqua, bicchieri con tre prugne Stanley (blu) ciascuno, prugne che ritroviamo al ristoro finale dove appare anche il tè (“sparso per molti ma non per tutti”, direbbe l’abate se ci fosse).

Sotto l’argine, che negli ultimi 2 km ci ripara dai raggi di un sole al pio colono augurio di un più sereno dì, reincontro due storici appassionati di questa camminata, Stefano Piazzi e il prof Ezio Bortolotti, mio scolaro antichissimo dei tempi – ci diciamo – di quando avevamo i capelli neri; al traguardo è invece già arrivato un altro decano del podismo bolognese, il Fregni da Persiceto detto Assantùn per il punteggio che suole conseguire a briscola.

Più affollata che la linea di partenza si rivela, dopo l’arrivo, la fila per la cassa del ristorantino: in mancanza di pacco-gara (la Madonna della Strada ci scampi dall’ennesimo mezzo chilo di pasta o da una confezione di tortine-Porretta) ogni podista può spendere qui l’equivalente della tassa di iscrizione. Scelgo di convertirla in gnocco fritto, losanghe grosse e soprattutto gustose che, farcite di prosciutto nostrano, rapidamente compensano le 575 calorie che il Gps mi segnala di aver bruciato, alla vertiginosa media di 6:15 a km.

1. Michele Rizzitelli, Una coppia da Guinness (Roma, agosto 2022): le quasi 400 pagine di un libro che in trenta capitoli scanditi annalisticamente dal 1994 al 2020 (più qualche capitolo di preambolo e un finale “per non concludere”) racconta duemila maratone o ultramaratone, non sono un traguardo raggiungibile da qualunque lettore; e viene da chiedere per chi il libro (diffuso dalle edizioni Albatros-Il Filo: https://www.gruppoalbatros.it) sia stato scritto, se per i maratoneti compulsivi oppure anche (come dicono gli accademici quando sfornano un testo commerciale) per le persone colte, diciamo curiose.

Quando e perché sia stato scritto, lo svela l’autore e demiurgo (nel senso che, malgrado il titolo duale, soggetto sceneggiatura e realizzazione sono irreversibilmente sue) verso la fine: dopo “la giornata più inutile della mia vita”, quella domenica 1° marzo 2020 passata sul divano perché tutte le maratone erano state annullate (bè, in realtà se ne fece almeno una, stile trail, in terra toscana non ancora raggiunta dai diktat governativi; ma è probabile che la coppia barlettana avesse puntato le sue carte sulla rinascente Bologna, fatta abortire dalla triade rossa Merola-Bonaccini-Speranza, lasciando così “l’antica Felsina unica a non aver mai avuto una vera 42,195”, come discutibilmente si sostiene a p. 270, in contraddizione con p. 135); quel giorno dunque, primo ufficialmente di una triste serie, dopo aver scaricato le pile del telecomando alla vana ricerca di un programma televisivo decente, il dottor Michele (da poco in pensione, dopo una vita dedicata al coscienzioso espletamento dell’arte medica) decise di mettere in prosa ‘ostensibile’ i suoi sterminati taccuini di appunti.

Per chi, poi? Difficile evitare, in tanti momenti, “il rischio di sconfinare nell’autocelebrazione”, ovvero il compiacimento di ricordare il primo posto di categoria lì e l’ovazione ricevuta là, la vittoria di coppia alla 24 ore di Termini Imerese, e insomma il (o i) Guinness sparati fin dal titolo. Personalmente, dalla prima visita fatta al Museo dei Guinness, all’Empire State Building nel 1990, ritengo che il Guinness non sia un elenco di record ma di stranezze: chi ha mangiato più uova a colazione o divorato la salsiccia più lunga in meno tempo, o magari chi ha emesso il rutto più durevole. Rischio che l’autore esorcizza con ripetute dichiarazioni di modestia, fin dalla pagina d’esordio (“gli studi di Medicina e Chirurgia richiedono non eccelsa intelligenza”), e soprattutto con una sorta di transfert verso la cara moglie Angela, “dolce e paziente”, ma “non tanto dolce di sale”, sposata nel 1991 dopo una apparizione tra l’onirico e il mitologico (p. 27), e una biciclettata galeotta (229): e lei sì gratificata di ogni tipo di elogi, che appaiono forse esagerati a chi non conoscesse il sacro peccato d’amore che li muove (e determina l’intero cap. 14, dove al “sig. Gargano” sfugge però che “dietro una grande donna c’è sempre un grande uomo”).

2. Come dice il sottotitolo (in copertina, non in frontespizio), Le nostre mille maratone, oggetto principale del libro è appunto il ricordo di mille (ultra)maratone per lui e altre mille per lei: non sono sempre le stesse, sia per le soste forzate dell’uno o dell’altra, per qualche infortunio o per i pochi inevitabili ritiri (ma il primo fu quello alla Nove Colli citato a p. 173 o quello dell’anno dopo a San Vito al Tagliamento, su cui p. 186?); sia soprattutto perché, salvo esigenze di “assistenza”, nella medesima gara ognuno dei due va col suo ritmo (che nel caso del dottor Michele – 3h34 dichiarati nel 2001 - è abbastanza dignitoso, quando si impegna: lo dice uno che in gioventù lo batteva quasi regolarmente, fino a quell’arrivo a Carpi in cui Michele lo sorpassò, chiedendo permesso, quasi in piazza Martiri; e adesso i sorpassi al passivo sono quasi la regola). E insomma, sorbirsi duemila resoconti, anche ripetitivi perché fatalmente molti percorsi sono stati affrontati decine di volte, e altri si riducono a semplici elenchi notarili (come le 9 maratone citate in due righe a p. 139, le 17 in 10 righe di 174-5, ecc.), non è impresa facile per il lettore, anche quello malato di maratonite (o maratonosi: chiedo al dottor Michele, che ogni tanto infiora la sua prosa con parolette impeccabili tipo episodi collassiali o sintomatologia algica o glomeruli renali o tenovaginite dei peronieri, se uno stato cronico possa appunto chiamarsi col suffisso -osi), e che fatalmente conosce buona parte dei luoghi descritti nel libro.

3. Per fortuna, il racconto – diciamo così – tecnico è talora felicemente soverchiato dalla descrizione dei luoghi, spesso accoppiata a note storiche o letterarie: non tutte-tutte a proposito (Teodorico non fu mai imperatore, come invece detto a p. 290; Dorando non è nato a Carpi - p. 52 - ma a Mandrio di Correggio; Durbans è un dentifricio e non una città come appare a p. 373; “le” Mauritius e “le” Réunion di p. 295 sono in realtà una in ciascun caso; la morte per Pavese di p. 332 non aveva “il colore” ma solo gli occhi della renitente attrice amata; l’amica che con Nietzsche frequentò il lago d’Orta non si chiamava Andreas Salomè come a 309, ma Lou Salomè coniugata Andreas); ma in molti punti tali da instillare davvero il desiderio di andare là, non solo per la maratona: fra le tante, penso alla Dublino letteraria (mentre per Berlino vedo che non c’è uguale entusiasmo bastando 2 righe a p. 354, e per Interlaken, l’altro mio personale top, ne servono solo tre a 158; laddove Parigi varrebbe la pena di una visita solo per la tomba del conterraneo Giuseppe De Nittis, mentre appare trascurabile la menzione dell’incendio di Notre Dame, in rapida dissolvenza a p. 359 a favore della Muraglia cinese); e ancora, si vorrebbe andare a Pantelleria sede di un Ecotrail, a Cormons e al suo Collio, a Mattinata e al Gargano, alla Reggia di Caserta, per non dire di località minori che si fanno scoprire solo quando organizzano una maratona (chissà com’è davvero l’architettura di regime a Borgo Incoronata di Foggia, tratteggiata a 305-6). Peccato che talora alla bellezza paesistica si accoppii il malcostume organizzativo, come si dice a p. 95 di Livorno (corsa nel traffico) e a p. 205 di Lecco, cui mancavano le medaglie e il ristoro finale erano “rimasugli per mendicanti” (ma non si dice la stessa cosa della prima Ragusa a 143-5, forse per una certa solidarietà meridionalistica che spesso vela realtà poco idilliche, e addirittura antepone a p. 160 l’estinta maratona di Agrigento a quella di Atene, e a 282 pone ai vertici la foggiana maratona-discount dell’Incoronata, e a p. 324 la 6 ore messinese di Capo d’Orlando, nella quale l’amata Angela fu “regina”). Ma va detto che anche la nordica Torino-Saint Vincent è detta “gran bella gara” (221), sia pur lasciandosi sfuggire che si corre nella notte abbagliati dai fari delle auto che sfrecciano a pochi centimetri: resta l’impressione che a volte i voti dipendano dalla simpatia goduta dagli organizzatori (e così, il lago d’Orta a p. 308 diventa il più bello d’Italia per merito di Paolo Gino). Né direi che la descrizione delle maratone nei deserti nordafricani, malgrado l’accattivante foto di copertina, invogli a fare questa esperienza; e forse nemmeno la 100 miglia a tappe sotto l’Himalaya, per non scendere alle tante corse o corsette “attorno al cortile di casa” (come si diceva qualche decennio fa), fossero anche la 10 giorni alias 1000 km, su un tracciato di 1000 metri nel vecchio aeroporto di Atene, cui sono riservate 11 pagine (250-261), prima di passare all’analoga esperienza nel cosiddetto Campovolo di Reggio.

4. Altre chicche o camei (come le chiamano rispettivamente gli speaker podistici e i critici di cinema) traspaiono qua e là, ad esempio nella descrizione impietosa, “da vicino”, del decantato cantore Gianni Morandi, dalla “capigliatura policroma per la tintura datata e la postura cifoscoliotica” (192); nel racconto dei concorsi per la specializzazione medica (68-71) o del 2 nello scritto di italiano all’esame d’ammissione alle medie (superato poi a settembre; si faccia coraggio Michele: anche il suo recensore di oggi, al ginnasio stentava il 6 nei temi, e nella carriera scolastica non ha mai preso più di sette; vent’anni dopo però, è stato chiamato a fare un corso d’aggiornamento su “come si fa un tema” a un gruppo di docenti, tra cui anche colui che alle medie l’aveva bistrattato); e ancora, nella “vera storia” di p. 340 sulla scelta dell’inno di Mameli.

Venendo al nostro tema specifico, ecco la ferma critica alla maratona di New York, che pure costituì l’esordio di Michele a 40 anni sulla distanza regina nel 1986, e “credo che quella mia partecipazione a New York abbia segnato la nascita della maratona di massa” – aggiunge l’autore a p. 25, con egocentrismo che suppongo preterintenzionale. Trovo più corretto dire che la trasferta a NYC nel 1986 (prima di varie presenze rizzi-garganiche sullo Hudson) fu lo specchio di un approccio alla maratona che stava cambiando, spinto da fattori commerciali e da esibizionismo individuale: Rizzitelli più oltre (326) definisce l'adunata alla Grande Mela “roba da novizi della corsa… tosati da intraprendenti agenzie”, con la complicità locale come nel 2012, l’anno dell’annullamento per maltempo (cfr. 275); gustoso l’accenno al “Narrows color paglierino” per le minzioni degli atleti appena partiti sul ponte di Verrazzano (la mia esperienza invece mi fa dire che nell’immenso prato d’attesa ci sono numerose toilette, oltre al largest urinator in the world, altra roba da Guinness). Anche di Tromsö, specchietto per le allodole minore ma pur sempre agitato, si dice che del decantato sole di mezzanotte non c’è “neppure l’ombra” (sic, p. 83).

5. Semmai Rizzitelli, sia come atleta sia come medico, è testimone in carne e tendini, e - diciamo pure - anche coautore della smitizzazione dei luoghi comuni medicali imperanti quando cominciò/cominciammo: la maratona sarebbe uno sforzo superiore ai normali limiti umani, e correrne un paio all’anno basta e avanza (una smentita a più alti livelli tecnico-mediatici è venuta, come sappiamo, da Calcaterra); senza dire dei mutevoli precetti alimentari, sui quali la coppia barlettana dei “cattivi maestri” (cap. 12) sorride, guarda e passa; come sorride sulle “facezie” di Piero Ottone “esponente della sinistra al caviale… amante di nobili panfili”, e per questo schifato dal plebeo sudore podistico (98).

Lo stesso esordio di Angela andò su questa direttrice, con la “doppietta” 30 ottobre-6 novembre 1994, da Acquaviva delle Fonti a New York (e nel passaggio dal 1999 al 2000 ci fu la doppietta in 24 ore, tra Assisi e Roma; nel 2004 si arrivò alle due in un giorno tra Pisa e Rimini). Due anni dopo l’esordio del ’94 si passò alla 100 del Passatore, che sebbene non sia “la più bella del mondo” secondo il luogo comune accettato a p. 49 (mai stati a Biel/Bienne?), ha visto i coniugi protagonisti almeno una decina di volte. Con amoroso puntiglio sono seguiti i record quantitativi di Angela, primatista italiana con 29 maratone nel 1999, detronizzata però dalla vicentina di Montecchio Renata Cecchetto (non bolzanina come detto a 105, equivocando sul suo temporaneo domicilio coniugale), e però definitivamente prima con le 100 del 2002, appaiate alle 100 di Michele, che attribuisce l’idea della cifra tonda al giramondo Mario Ferri (che a sua volta sta quasi completando il suo progetto di correre almeno una maratona in tutti gli stati dell’Europa, inclusi gli staterelli sorti dopo il 1989); e col raccontarle nel lungo capitolo 11 dà un po’ il capogiro di fronte alle tante 42 a circuito forzosamente affrontate per entrare, appunto, nel Guinness (eppure a p. 235 gli sfugge il sentimento di “essere condannato a girare come un asino attorno al pozzo”).

6. Oltre ai luoghi, il libro è una rassegna di persone, cui non si lesinano complimenti all’insegna del volemose bene (quasi una palinodia rispetto a giudizi un tantino meno riguardosi espressi - dico io, con buone ragioni - qualche lustro fa). Del mitico William Govi, “atteggiamento cifotico, non proprio a dieta”, si dice di aver voluto “attingere dai suoi pregi, evitando i suoi non pochi difetti” (54), e si sorvola sull’arrivo alla già citata Ragusa (o i tempi prodigiosi fatti registrare ogni anno a Scandiano in una maratona notturna con larga zona buia non sorvegliata), che getta qualche dubbio sui suoi conclamati record. Pure Beppe Togni è poco meno che beatificato a p. 88 (ma è giusto pubblicizzare, tacitamente confrontandolo col di-cui-sopra, il suo gesto di onestà sportiva a Ravenna, 102); commosso il ricordo di Sergio Tampieri, prima anima dei supermaratoneti (245), e c’è spazio per Luisa Betti (ultimamente celebre lippis et tonsoribus forse oltre le sue intenzioni), dispersa nel 2014 sui sentieri di Monte Sole (312-3; col suo stile un po’ troppo pindarico, Michele non dice come sia finita), ma nel 2018 vincitrice della 56 km in 10 giorni, ovviamente a Orta (che risulta la località più citata, con Amburgo, del libro), in quasi 60 ore, con 8 ore di vantaggio sul secondo, Paolo Saviello (d‘accordo, non stiamo parlando di Grete Waitz e Stefano Baldini). E c’è menzione pure per Antonio Rossi, il San Martino dei luoghi verdiani, che col suo mantello nel 1999 salvò la gara di Angela (67-8).

7. Avviamoci alla conclusione, coll’inverarsi del sottotitolo: secondo una certa numerologia cara a Michele (che per esempio fece marce forzate per raggiungere la sua n° 700 vicino a casa, nel giorno del 70° compleanno), era previsto che le 1000 maratone di entrambi (lui stava colmando le “sole” 13 maratone di svantaggio rispetto a lei) fossero raggiunte il 3 maggio 2020 prendendo il via dalla patria Barletta: ma solo 7 gare furono a disposizione dei tapini prima del lockdown, e per la ripresa si dovette aspettare l’estate, alla cui conclusione, il 10 settembre, toccò a lei raggiungere per prima il traguardo, incoronata dalla mamma a Policoro. Michele dovette concludere il suo itinerario, metaforicamente si direbbe “con l’imbuto” (8 gare consecutive a Policoro, 4 a Rieti per dare un’idea): e il 18 ottobre, a Pescara, raggiunse finalmente obiettivo e moglie, prima che un altro lockdown bloccasse di nuovo lo sport.

Conclusi questi obblighi autoimposti, la coppia potrà finalmente riprendere le amate crociere per il globo, già sperimentate in due occasioni che tuttavia non hanno impedito, nei mesi liberi, dalle 30 alle 50 maratone annue; ma senza fermarsi mai nemmeno in futuro, col limitarsi a essere più “selettiva”, ristretta alle gare “più belle o mai fatte” (è dunque sottinteso che questo impeto stakanovistico abbia portato anche a correre maratone “meno belle”, in numero maggiore rispetto a quelle indicate con la matita rossa e blu).

Dopo tutto, si tratta di scelte personali: qualche ‘giudice’ più pignolo dei signori del Guinness potrebbe chiedere i certificati di omologazione-misurazione di molte gare considerate valide per la ‘tacca’ (qualcuna più ‘artigianale’ delle citate, cui era presente anche il sottoscritto, secondo i Gps non raggiungeva i 40 km). Ma che importa? “Noi maratoneti – si dice a p. 298, per altro proposito – vendiamo la nostra prestazione usando la stessa tecnica dei commercianti nell’esporre i prezzi”: ufficialmente, ognuno crede all’altro; poi, girato l’angolo, gli si comincia a fare la tara.

8. Se dovessi dare il mio contributo (citando a memoria) direi anzi che al catalogo manchi una maratona, quella di Vigarano-Ferrara del 17 marzo 2002 (assente dalla p. 107 del libro): era una maratona abbinata a quella su pista disputata a Ferrara il 9 marzo precedente, che Michele cita e nella quale, primo di categoria, lo precedetti di una buona mezz’ora. Mi preparavo a completare il risultato dell’abbinamento (riccamente premiato in euro), quando il peggior attacco d’ulcera della mia vita, causato da 7 aspirine in 7 giorni per guarire un gran raffreddore, mi costrinse a letto proprio il giorno della rivincita, con ematocrito a 30 ed emoglobina a 10. Michele aveva la via spianata per il successo, che difficilmente gli sarà sfuggito (l’onore di famiglia fu salvato da mia moglie, prima donna classificata, che portò a casa 258 euro, insomma mezzo milione delle vecchie lire).

La rivincita sportiva (condita come sempre da rispetto e complimenti reciproci, e magari anche dalla messa frequentata in comune) arrivò nel 2015, alla 50 km San Gimignano-Siena, che l’autore magistralmente descrive alle pp. 318-320: qui segnai 5.40:12, mentre Michele dichiara 5.47:48, aggiungendo di essere stato “premiato come primo di categoria” (ma citando gli M 70, cui all’epoca non apparteneva essendo ‘solo’ sessantottenne, dunque nella mia stessa M 65 dell’epoca). Quid est veritas?, chiedeva Pilato; e se vogliamo abbondare con le citazioni, aggiungiamo pure amicus Plato sed magis amica veritas.

E non facciamone questione capitale: “sono solo maratone”, pesanti ad libitum, tanto quanto i pesci pescati nelle vecchie storielle sui pescatori. E ringraziamo il libro che le racconta, capace di evocare persone, panorami, affetti vissuti in quelli che inderogabilmente restano gli anni migliori delle nostre vite.

 

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