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Gen 11, 2021 4723volte

Dalla Bora di Trieste soffiano folate propizie: arriveranno in Italia?

Dalla Bora di Trieste soffiano folate propizie: arriveranno in Italia? Roberto Mandelli

10 gennaio - Entrai in Trieste la prima volta un pomeriggio degli anni Settanta. Il treno era l’erede dell’Orient Express, con carrozze da Parigi per Thessaloniki - Istanbul dopo soste a Belgrado, Sofia e chissà cosa altro. Nelle ultime centinaia di metri rallentava a passo d’uomo, e dentro ai finestrini cominciavano a piovere borsoni, poi a salire persone che allora si chiamavano iugoslavi, venuti a Trieste a comprare quello che nei paradisi dei lavoratori non si trovava, e volevano garantirsi i posti migliori. Le colline sopra la città erano dominate da una gigantesca scritta che inneggiava al Maresciallo. Un paio di km a sud, a Muggia, l’Italia finiva; ma anche Trieste non eravamo sicuri che fosse proprio italiana, nel senso che era la “Zona A”, provvisoriamente nostra ma chissà. Solo nel ’77 entrò in vigore il trattato di Osimo, e Trieste fu italiana del tutto; ci lasciarono anche la Foiba di Basovizza, dove gli italiani erano stati buttati vivi, legati col filo spinato ai morti ammazzati. Ma Capodistria, Isola, Pirano (da dove era scappata la mia maestra, con suo fratello che coprì la ritirata di famiglia sparando), tutta l’Istria insomma, andarono di là per sempre, come era già accaduto a nord per Caporetto o le grotte di Postumia.

Da queste tristezze cercavo di liberarmi, in quelle prime incursioni, salendo a San Giusto: memore della campana cantata dal 1915, da Caruso, Claudio Villa e Pavarotti, e delle ragazze di Trieste che chiedevano all’Italia di liberarle. E sull’altura di San Giusto una quantità perfino eccessiva di lapidi e monumenti ricorda quel 4 novembre 1918 quando il tricolore fu issato sul castello dall’invitta armata di Emanuele Filiberto duca d’Aosta, e su pietra venne incisa una lapide con la scritta “Mare Nostro”, a bagnare le terre redente (poi, la “vittoria mutilata” fu risarcita dai Legionari del Poeta Soldato, e la Carta del Carnaro fu la prima costituzione moderna ed eversiva della nuova Europa). Ma ricorda anche gli anni duri del “TLT”, il lavoro degli sminatori, i profughi istriani: nella mente tornano i nomi di Nino Benvenuti e Abdon Pamich, di Laura Antonelli e Alida Valli (trovate due donne più belle in tutta Italia), di Mario Andretti e Sergio Endrigo, di Ottavio Missoni e Lidia Bastianich. E per entrare in campo podistico, anche il marchio Diadora (che andrebbe pronunciato Diàdora), seppur fondato in provincia di Treviso, ricorda il nome latino di Zara (alias Zadar), da dove uno dei primi suoi artefici era dovuto fuggire.

2. Queste cose mi hanno guidato, più di quarant’anni dopo (o forse, più di sessanta, da quando cioè la maestra Maria, che mi chiamava fiaccòòne per le scarse doti ginniche, ci parlava di San Giusto lontana e contesa), a cercare di iscrivermi alla Corsa della Bora, dopo aver partecipato più volte alla Bavisela e alla maratona di maggio. Il sito del Sentiero S1 (appunto, il sentiero sul Carso stretto tra il confine e i meravigliosi strapiombi sul mare non più tutto nostro) è tanto ricco da rischiare di smarrircisi, ma anche da invitarti a leggerlo e rileggerlo e indurti a fare di tutto per prendere parte all’evento. Quest’anno, poi, c’è la complicazione enorme del Covid-19, con le limitazioni pazzesche poste all’agire umano, e un accanimento particolare contro il podismo. Sicuramente le leggi (o meglio, i decreti, sebbene di dubbia costituzionalità) sono fatte a fin di bene, la pressione sugli ospedali e le rianimazioni è intollerabile, il numero di morti per Covid (sebbene si dovrebbe dire “con Covid”) è doloroso, e sicuramente da qualcuno delle centinaia di superesperti e superfrequentatori dei talkshow (sebbene la loro qualità accademica ovvero il cosiddetto h-index risulti spesso carente) vengono avvisi di saggezza, che poi i politici tirano da una parte o dall’altra a seconda del proprio indice di gradimento.

Per farla breve, ho aspettato l’ultimissimo giorno (lunedì 4 gennaio) per iscrivermi, ma tenendo il fiato sospeso di fronte alle arlecchinesche carte d’Italia tricolori (non biancorossoverde come a San Giusto, ma giallo arancione rosso, con le varianti del “giallo rafforzato” o del “rosso attenuato”), che già avevano costretto Trieste al rinvio della data prevista del 3 gennaio, causa l’inopinato rosso festivo su tutta Italia. Solo venerdì 8 sera, leggendo che il Friuli-Venezia Giulia aveva uno degli Rt più bassi d’Italia e per giunta in calo (da 0,94 a 0,91), mentre quello della mia regione stava crescendo e portandoci “in arancione”, ho prenotato un albergo; a confortarmi sono giunti ben tre email (uno al giorno) di “invito” mandati dagli organizzatori agli iscritti, e corredati di tutte le pezze d’appoggio legali e le firme importanti, ad uso di quale poliziotto zelante. Perfetto anche il briefing di venerdì sera (cui ne sarebbe seguito un altro sabato sera).

3.Eccezionali, ed inaudite, le misure di sicurezza, anche se un mio compagno di squadra (non a caso mezzo triestino) dice che “all’aperto e distanziati, prendersi il Covid richiede un impegno notevole”: il ritiro pettorali andava prenotato per un’ora precisa; al “Bora Village” situato nel luogo di arrivo, sulle alture di un paesino che non è nemmeno nell’atlante stradale del Touring al 200mila (ma per fortuna è noto a Google maps, oltre che perfettamente indicato nel sito della S1), potevano accedere solo gli atleti. Anche l’orario di partenza andava prenotato, in una finestra di 15 minuti, senza mai superare le venti persone presenti; obbligo di mascherina nelle prime centinaia di metri, e (novità per me, che pure da settembre a oggi sono andato a tutte le gare esistenti in un raggio di 350 km) obbligo di mettersi la mascherina anche nell’accostarsi ai ristori, dove potevamo prendere un sacchetto e farci versare nella nostra tazza personale le bevande, poi allontanarci per consumarle. Obbligo di lasciare la borsa del cambio, sigillata e disinfettata dagli organizzatori, la sera prima già nel luogo di arrivo; ingresso contingentato nella tenda-spogliatoio dopo l’arrivo, con preghiera di far presto (quando arriverà il mio turno, noterò che appena la panca a me destinata è liberata dal precedente occupante, una addetta correrà a disinfettarla).

Tutto ciò perché (come ha detto in conferenza il commander in chief Tommaso de Mottoni) questa è una circostanza unica e un’occasione storica, e c’è gente ‘di fuori’ che non aspetta se non un passo falso per sparare le sue solite bordate disinformate, faziose e invidiose (questo lo aggiungo io) contro una pratica dello sport disciplinata e responsabile. Ovvio l’invito al rispetto e al buon senso per tutti noi; e io stesso, entrando in un ristoro, ho preso una piccola amichevole e sacrosanta sgridata perché la mia mascherina mi era cascata da un orecchio (era il copriorecchi di Podisti.net che non accettava… l’intrusione dell’elasticino). Ed entrando nello spogliatoio finale ho dovuto togliermi i guanti (che avevo portato per tutta la gara) per farmi disinfettare le mani!

Insomma, non mi vergogno di aver elogiato, da Casal Borsetti a Trino, passando per San Marino, Andora e altri posti, gli allestimenti di sicurezza posti in atto, e rivelatisi efficaci al 100% (mai un podista ammalatosi dopo queste gare: e oggi che la scienza ha scoperto il paziente 1 italiano con data 10 novembre 2019, chissà se gli sciocchi e disinformati detrattori del podismo la smetteranno di proclamare che Mattia Maestri si è infettato in gara); ma qui a Trieste ho visto cose straordinarie, impensabili: insomma, la perfezione, a prova del più pignolo dei questurini e del proibizionista più fanatico. All’obiezione, invece, che non dobbiamo correre per rispetto dei morti, non saprei cosa replicare: meglio mettersi a letto ad aspettare l’eterno riposo, beninteso spegnendo il frigorifero per rispetto ai morti delle dighe idroelettriche, e non partecipando nemmeno alla DAD e ai webinar, uno solo dei quali (sono statistiche della Gabanelli di oggi) produce tanto gas serra quanto 1500 ricariche di telefonino.

4. Allora, mettiamoci in viaggio: in autostrada, quasi solo camion con targhe turche o polacche o dintorni; in un bar verso Dolo ti aprono se suoni, il caffè devi fartelo da solo alle macchinette e consumarlo all’esterno. All’ultimo ristorante prima di Trieste, verso Palmanova, la cucina non funziona, ti scaldano solo panini o simile, e gli avventori seduti ai tavoli sono pressoché tutti podisti che vanno alla Bora. Come sarà anche negli alberghi di Trieste o Sistiana, offerti in gran numero a prezzi convenzionati con l’organizzazione. Ne prendo uno a due passi dalla partenza della maratona (una novità, messa su in collaborazione con Trieste Atletica), cui forse il nome di “Urban Eco Marathon” va un po’ stretto, perché di urbani ci sono solo i primi 2-3 km, poi l’attraversamento di qualche paesino alle falde del Carso, e l’asfalto grosso modo durerà una decina di km, più o meno tanti quanti i sassosi sentieri carsici, mentre il resto è costituito dalle stupende carraie a fondo naturale, o ghiaiate, dei Sentieri 1 e 2, e dell’Alpe Adria Trail.

Possono comunque bastare anche delle robuste scarpe da asfalto, come suggerisce de Mottoni, e io quelle scelgo (con un plantare abbastanza spesso) quando vedo che le previsioni danno precipitazioni all’1% (saranno i fiocchi di neve verso l’una), e fondo sostanzialmente secco. Tassativo, e ripetuto anche in un email di domenica mattina, vestirsi pesante e portarsi qualcosa di protettivo nello zaino: perché la bora è garantita (se non ci fosse, chiederemmo indietro il prezzo del biglietto: raffiche fino  a 100 km/h), la temperatura massima sarà di 3 gradi, quella percepita molto sotto: sull’altipiano, fra i 300 e i 410 metri, le pozzanghere sono ghiacciate e tra l’erba affiora la neve dei giorni scorsi. Godimento puro.

5. La prima parte della maratona (quasi 9 km) si svolge sulla bellissima pista ciclabile Giordano Cottur, ricavata da una vecchia ferrovia, compresa una galleria di 3-400 metri: avete presente la Cortina-Dobbiaco? Il nome di Cottur, triestino purosangue coetaneo di Bartali, riporta a quel drammatico Giro d’Italia del ’46, quando gli organizzatori ottennero dagli alleati occupanti di finire una tappa a Trieste; ma i titini di là e i loro compagni di qua (che consideravano Trieste non-italiana e dunque quella del Giro una invasione), a Pieris, ingresso della Zona A, sbarrarono la strada con pietre, blocchi di cemento, chiodi, filo spinato sulla carreggiata, e si misero pure a sparare. Ha scritto Daniele Marchesini: “Ortelli in maglia rosa si butta sotto una macchina, i carabinieri rispondono al fuoco, gli spettatori scappano nei campi, gli attentatori in fuga inseguiti. Panico. Le squadre più importanti subito decidono di non proseguire… Diciassette corridori decidono di continuare lo stesso. Passano due ore e gli organizzatori decidono che la tappa riparte dal bivio di Miramare. Tra i più infervorati, il triestino Giordano Cottur della Wilier Triestina, squadra che riunisce solo corridori delle Tre Venezie. Supera un passaggio a livello e si rimette a pedalare. Si procede lenti, la strada è piena di chiodi che gli spettatori di poco avanzano i corridori nel togliere. C’è pure Luigi Malabrocca con la sua maglia nera, e ovviamente arriva ultimo...”. Arrivano in 17, e simbolicamente vince Cottur, maglia rossa con l’alabarda, simbolo della città, sul petto, in un tripudio di folla.

Il giorno dopo, 1° luglio 1946, il grande Bruno Roghi, nel suo editoriale sulla Gazzetta dello Sport del 1° luglio 1946, scrive parole che danno un groppo in gola anche oggi: “È scappato Cottur… La sua andatura è impetuosa, il viso affilato e pallido dell’atleta compone con la sua bicicletta la prua di un ordigno aerodinamico. Un atleta triestino, della Trieste di noi tutti vola verso il traguardo della prima tappa. La sua maglia sapete com’è: rossa di fiamma. È la maglia della Wilier Triestina attraversata da un’alabarda. Rossa di fuoco, il sangue del nostro cuore è andato a tingere il tessuto che fascia gli omeri e il torso di un atleta triestino. Oggi non abbiamo che un nome sulle labbra e nel cuore: Giordano Cottur, che a un “no” per Trieste elaborato ai tavoli delle caute diplomazie, risponde con un “sì” a tutti gli sportivi italiani... I giardini di Trieste non hanno più fiori. Le campane di Trieste non hanno più suoni. Le bandiere di Trieste non hanno più palpiti. Le labbra di Trieste non hanno più baci. I fiori, i palpiti, i suoni, i baci sono stati tutti donati al Giro d’Italia”.
E se volete stemperare in un sorriso queste vicende di fronte a cui (scrive sempre il mio compagno di squadra) per i triestini “il Covid è un solletico”, cercatevi su youtube la scena finale di Totò al Giro d’Italia, cui partecipano Coppi, Bartali e appunto il mitico Cottur:

https://www.facebook.com/47861367820/videos/10154310276317821/

6. Andiamo dunque alla partenza, e partiamo pure, salutati da un gigantesco ciuco che ci dà il cinque (guantato). Tappeto di rilevamento, s’intende, e altri 3-4 controlli per via; trasmissione in tempo reale dei dati, per chi volesse seguire. Dopo 8,600 di moderata salita che ci porta comunque sui 300 metri, dai 64 metri della partenza, direi quasi al confine con quelli di là (S. Antonio in Bosco), c’è una brusca svolta a sinistra con strappo su sentiero che immette sull’altopiano, dove la bora ulula come nei film (devo dire, contro noi nel primo tratto, poi a favore, e infine diagonale nell’ultima parte). Frecce e bandelle a prova di cecità, ristori solo liquidi fino al km 14 (quando ormai il tè, originariamente caldo, per i tardoni come me è ex-tiepido). Ci si congiunge coi mastini della 80 km (partiti la notte di sabato), poi, sotto l’obelisco di Opicina da dove stanno partendo i velocissimi della 21, il ristoro con sacchetti dove mi sgridano (e ripeto che hanno ragione; mi fermano pure quando sto per attingere alla boccia del tè, perché me lo danno loro!). I sacchetti a sorpresa sono divisi in vegetariani, con formaggi, con cose dolci e con carne: punto sulle ultime due tipologie, e mi troverò fuori, su un muretto, a ingozzarmi di cubetti di squisita mortadella mischiandoli a pastiglie di cioccolato e a biscotti sbrisoloni che mi faranno tossire.

Da Opicina si torna su vista-mare, in una balconata giustamente frequentata da camminatori di ogni genere, mentre le pareti rocciose a destra sono popolate da climbers. Abbiamo un pubblico?? Orrore per i fanatici proibizionisti: una bella mamma con le sue due bimbe è al bordo della pista e ci applaude. Roba da far vietare la gara per infrazione al comma taldeitali che vieta il pubblico alle manifestazioni sportive? (e questa, se applicata al podismo, è forse la più demenziale delle disposizioni). Sono io ad applaudire e fare complimenti, senza mettermi la mascherina, alle bimbe: prossimi orfani della ministra Lamorgese, datemi la multa.

Dall’alto, sulla verticale di Miramare, lo sguardo spazia tra i due limiti del golfo, Grado e la Punta Salvore (oggi, ahinoi, Savudrija). Nessuno meglio di Carducci l’ha descritta, e sembra parli proprio di oggi: “Meste ne l’ombra de le nubi ai golfi – stanno guardando le città turrite, - Muggia e Pirano ed Egida e Parenzo – gemme del mare; - e tutte il mare spinge le mugghianti – collere a questo bastion di scogli – onde t’affacci a le due viste d’Adria, - rocca d’Absburgo: - e tona il cielo a Nabresina lungo – la ferrugigna costa, e di baleni - Trieste in fondo coronata il capo – leva tra’ nembi”.

Ma conviene correre, perché le gazzelle della 21 ti sopravanzano (sempre complimentandosi, visto il colore del nostro pettorale), come noi ci diciamo ammirati degli eroi della 80 con cui ormai faremo strada comune, e ci dispiace sorpassarli, perché sono molto, molto più bravi di noi. Dalle parti di Prosecco (ah perché non offrirci un calice?) c’è la separazione coi 21 e 57 che scendono verso il mare; noi saremmo pure autorizzati a stare con loro (“non vi squalifichiamo”, spiega de Mottoni: “la fate solo più lunga e meno panoramica”). Dunque stiamo in alto, sopra Nabresina/Aurisina: e io penso a papà Gigliotti, che qui nel 1943 protesse la stazione da dove partiva l’ultimo treno per l’Italia: difendeva la patria e la famiglia, col figlio Luciano di 9 anni, diretto a Modena dove ha fatto quello che tutti sanno. Ma il papà rimase e finì in una foiba.

Passiamo la ferrovia e comincia l’ultima salita di un certo rilievo, verso i 300 metri attorno alla Grotta Azzurra, intorno al km 34. Persino sul pettorale sta scritto che la discesa è scivolosa: niente di che. Dopo il 39 arriviamo, quasi stabilmente, sull’asfalto, e tutti i percorsi si ricongiungono. Un addetto ci dice: bravi, ultimo km! Da scettico razionalista, con sguardo al Gps, lo smentisco: ne mancano più di due! È vero, la stazione e il campo sportivo di Visogliano (il paese sconosciuto al TCI) sono lì, ma per raggiungere la lunghezza canonica ci fanno fare una specie di circonvallazione fino al tappeto finale del chip.

7. Da qui, bentornati nell’Italia dei Dpcm: pregasi indossare la mascherina subito, ritirare self service la medaglia incellofanata (un bel rettangolo rosso-alabardato con la scritta “Essere qui è meraviglioso”) e il cestino-ristoro, non poter far altro che sentire le felicitazioni di due belle ragazze con la maschera che lascia scoperti solo gli occhi, passare nel campo dove il nostro cambio sanificato ci aspetta in bell’ordine, mentre il megafono ci indirizza al tendone-spogliatoio con preghiera di sbrigarci per rispetto a chi arriva. Due belle signore alla mia sinistra mi invitano al trail degli Eroi sul Grappa, ma qualcuno le sgrida perché la fanno lunga. Doverosi i complimenti alla giovane mamma Susanna de Mottoni (“si impartiscono lezioni” al resto d’Italia), e poi ci si attacca a Internet per vedere chi ha vinto. Mi arriva un whatsapp di un corregionale:

Posso solo dire GRAZIE agli organizzatori, che hanno dimostrato che oggi in Italia si può organizzare una gara grossa in totale sicurezza, tutto nei minimi dettagli, e zero rischi di assembramento. Bravissimi davvero (regione Friuli-Venezia G. e comuni coinvolti, non come ***) [segue nome di sede di gara soppressa all’ultimo], delle forze dell’ordine e anche dell’esercito. Mi levo il cappello e ribadisco il mio GRAZIE, sperando che in tanti abbiano il coraggio e le forze di seguirli. La gara era bellissima, durissima, freddissima, c’erano tanti punti panoramici che mi sono pure fermato a fare qualche foto”.

8. Ecco allora le graduatorie (complete qui a parte https://www.podisti.net/index.php/classifiche/14788-corsa-della-bora-urban-eco-marathon.html?date=2021-01-10-00-00 )

 

80 km (148 classificati più dieci coppie di staffetta, 7 ritirati tra cui la campionessa Francesca Canepa che ha scontato una crisi di freddo e fame), con arrivo quasi in volata:

1°  GUBERT MARCO 7:59:19

2° DE ROSSI ALESSIO 8:00:45

1^ donna e quarta assoluta: KESSLER JULIA 8:22:30 .

57 km: classifiche diffuse due giorni dopo per problemi tecnici, 147 arrivati e 5 ritirati:

1° POZZER ANDREA ITA 5:20:38
2° CARRARA LUCA ITA 5:28:52 
3° GHEDUZZI ROBERTO ITA 5:32:14 

Donne:

1^ (7° ass.) GUIDOLIN NICOL ITA 6:17:47 
2^ (9° ass.) VINCO GIULIA ITA 6:30:07

42 km  (112 classificati e 33 ritirati), con un dominatore assoluto, oltre 18 minuti sul secondo:

1° MILANI ALESSIO 2:51:17

2° 861 VENEZIAN FEDERICO 3:09:38.

Più combattuta la contesa femminile:

1^ GIUDICI FABIOLA 3:43:58

2^ 787 LASTRI MARIA ELISABETTA 3:47:15

21 km (372 classificati)

1° MERIDIO MICHELE 1:24:01

2° CORÀ GIOVANNI 1:25:35

Senza rivali vicine la vincitrice:

1^ STENTA CATERINA 1:42:43 .

16 km (202 classificati), anche qui con un vincitore netto:

1° BORGESA DANIEL  1:08:24

2°COMAND DANIELE ITA 1:12:16.

Tra le donne, lotta (presumo) in famiglia:

1^ BRUNO ILARIA 1:22:19

2^ BRUNO GRETA ITA 1:24:15

 
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Informazioni aggiuntive

Fotografo/i: Fabio Marri
Fonte Classifica: Endu

1 commento

  • Link al commento Giulio ANGELINO Giovedì, 21 Gennaio 2021 15:46 inviato da Giulio ANGELINO

    Stupendo articolo/racconto, bravo Fabio ! Io ho anche molto apprezzato le considerazioni, le frecciate e le battute ironiche che hai inserito qui e là. Vedo, dunque, che anche tu la pensi come Romiti e il sottoscritto, e hai capito come stanno realmente le cose. Sei uno dei pochi, evidentemente, che non si sono lasciati praticare il lavaggio dai politici e dai mezzi di comunicazione di massa, e pensano con la propria testa.

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