Direttore: Fabio Marri

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Fabio Marri

Fabio Marri

Probabilmente uno dei podisti più anziani d'Italia, avendo partecipato alle prime corse su strada nel 1972 (a ventun anni). Dal 1990 ha scoperto le maratone, ultimandone circa 280; dal 1999 le ultramaratone e i trail; dal 2006 gli Ultratrail. Pur col massimo rispetto per (quasi) tutte le maratone e ultra del Bel Paese, e pur tenendo conto dell'inclinazione italica per New York (dove è stato cinque volte), continua a pensare che il meglio delle maratone al mondo stia tra Svizzera (Davos e Interlaken; Biel/Bienne quanto alle 100 km) e Germania (Berlino, Amburgo). Nella vita pubblica insegna italiano all'università, nella vita privata ha moglie, due figli e tre nipoti (cifra che potrebbe ancora crescere). Ha scritto una decina di libri (generalmente noiosi) e qualche centinaio di saggi scientifici; tesserato per l'Ordine giornalisti dal 1980. Nel 1999 fondò Podisti.net con due amici podisti (presto divenuti tre); dopo un decennio da 'migrante' è tornato a vedere come i suoi tre amici, rimasti imperterriti sulla tolda, hanno saputo ingrandire una creatura che è più loro, quanto a meriti, che sua. 

“Il mezzofondo modenese in questa calda estate 2006 sta vivendo momenti d’alta tensione agonistica, ai suoi capi ci sono atleti come Mohamed Moro, Elisa Cusma e Matteo Villani che stanno riportando le cronache sportive dell’atletica modenese a livelli internazionali.
Mohamed Moro è reduce da una serie di prestazioni che hanno fatto vacillare il record sui 1500 metri detenuto da oltre 40 anni dall’ex olimpionico Renzo Finelli, allenatore dello stesso atleta. Moro nel meeting di Ponzano Veneto è andato vicino a quel record stabilito da Finelli nel 1966… A Ponzano Veneto, dopo aver vinto la gara degli 800 metri nel meeting internazionale di San Marino, con il tempo di 1: 49.66, Moro sì è presentato ai nastri di partenza del meeting Veneto riuscendo a strappare l’invidiabile risultato di 3’46”19, e da quanto ha affermato il suo tecnico, ha ancora ampi margini di miglioramento.
Altro atleta ma stesso allenatore, Matteo Villani, forte siepista italiano, dopo aver mancato per ben due volte il minimo di partecipazione ai campionati europei per solo un decimo di secondo sì e rifatto ampiamente vincendo nella stessa serata di gare con il tempo di 8’28”63, conquistando il lasciapassare per la rassegna continentale di Göteborg. Quasi un incubo quello vissuto dal giovane atleta d’origini parmensi, di casa a Modena da svariati anni ed iscritto alla facoltà di Medicina dell’università di Modena. Villani dopo due gare, a cui aveva dato tutto se stesso, aveva per un solo decimo perso la possibilità di dormire sogni tranquilli, basti pensare che nel meeting internazionale tra Italia Russia Cina e Polonia, era giunto secondo con il tempo di 8’35”10, invece a Ponzano Veneto ha rotto subito gli indugi partendo fortissimo, il passaggio al primo chilometro e stato in 2 minuti e 51 secondi il secondo ha visto transitare Villani in 2 minuti e 53 secondi mentre l’ultimo chilometro ha visto il cronometro fermarsi sui 2 minuti e 45 secondi, ampiamente al di sotto del minimo richiesto”.

L’abbiamo ripescato (senza correggere qualche errorino lessicale) dall’archivio della società modenese Fratellanza 1874, dove in tanti ricordano “il Villo”, a cominciare dai suoi compagni di squadra di allora, Moro appunto, o Giancarlo Bonfiglioli, che insieme a  lui affrontò in quel 2006 la classica “Corrida di San Geminiano”, dove Matteo arrivò terzo italiano (11° assoluto) in 40:41 sui 13,200 km (e Giancarlo 46° in 46:21).
Tutti ricordano anche come in Fratellanza nacque l’idillio che ha portato Matteo, all’epoca specializzando in medicina, a impalmare una giovane e bellissima modenese di San Felice, Giulia Bellini: atleta di valore a sua volta, classe 1984, 18:01 sui 5mila, 37:13 sui 10mila, 1.21:26 alla maratonina di Udine 2007, 1.23 a quella di Rubiera; e in maratona, guidata da Gianni Ferraguti, 2.51 a Firenze nel 2006 e ancora 2.58 a Reggio nel 2012. Da allora in poi, Giulia ha dato a Matteo tre figli, l’ultima 5 mesi fa, e si dedica dunque alla più nobile delle attività umane: per lo sport, c’è sempre tempo, e l’occasione magari verrà buona quando… lo si dirà in fondo.

Matteo Villani

Quattordici anni più tardi, dopo un’olimpiade (Pechino 2008, a 26 anni: Villani ne compirà 38 il prossimo 29 agosto), le cronache hanno riportato Matteo alla ribalta, su un fronte ben più drammatico ma affrontato con la solita determinazione: quello del Covid, che lo vede impegnato come anestesista-rianimatore all’ospedale di Piacenza (dove suo padre Giovanni è primario a Cardiologia e direttore del dipartimento di Emergenza- Urgenza): si era laureato in medicina due mesi dopo le olimpiadi cinesi, il suo lavoro sarebbe a Lugano ma in questi mesi c'è più bisogno qui.
L’ospedale di Piacenza, come sappiamo, per la sua vicinanza a Codogno è stato fin dall’inizio in prima linea nell’emergenza epidemica. Il superlavoro è cominciato in quel drammatico 20 febbraio, quando fu diagnosticata con certezza la presenza del virus in un paziente ricoverato per altre ragioni (anche se i medici sono convinti che la malattia si aggirasse nell’Italia del nord già da un mese): sono stati dieci giorni terribili, durante i quali l’ospedale è riuscito a portare da 10 a 45 i posti di terapia intensiva, ed a Matteo toccava uno dei compiti più ingrati, quello di portare in coma farmacologico e intubare i più gravi (anche se, precisa, è una procedura che si attua solo in casi estremi, perché rappresenta comunque una ‘lesione’ dell’ammalato, che alla fine deve trovare in sé le forze per risorgere), sia per curarli a Piacenza sia per sottoporli ad un rischioso trasferimento verso altri ospedali perché Piacenza non ce la faceva più.

Il dottor Villani, impegnato in turni anche di 14 ore al giorno, conditi da attimi di gioia per una guarigione, e da tante ore di disperazione, ha ‘messo in salvo’ la famiglia, facendola traslocare appunto a San Felice dai suoceri, e si è adattato a una vita monacale (ora et labora) tra la casa di Fidenza e l’ospedale. Salvare un ammalato è come una medaglia olimpica: come ha raccontato a Dario Ricci per “Avvenire” sabato scorso 4 aprile, “Il momento più bello è stato quando il nostro primo paziente, che avevamo intubato giorni prima, si è risvegliato e ci ha chiesto se era già in paradiso. In quel momento lui non vedeva, perché la terapia antivirale può dare anche una cecità temporanea, come effetto collaterale. Coi miei colleghi ci siamo avvicinati e gli abbiamo detto che no, era ancora qui, con noi, ed era in buone mani. Ora è a casa, completamente guarito”.

E la sua generosità di medico l’ha portato, malgrado le precauzioni, a beccarsi il virus pure lui (ne ha parlato il Tg1 dell’8 aprile; facendo venire in mente, a noi vecchi letterati, il manzoniano padre Cristoforo che volontariamente va al lazzaretto e contrae la peste): giunto a casa dopo un’altra giornata piena in reparto, è cominciata la febbre alta, la tosse, l’insufficienza respiratoria. Nei tre giorni più duri Matteo ha recuperato quella grinta che ben ricorda il suo primo allenatore, Gian Paolo Chittolini (gemello del mitico “Spino” patron della maratona verdiana e a sua volta allenatore di Lambruschini e tanti altri campioni): di quando il ragazzino veniva agli allenamenti in bicicletta attraversando campi coltivati e fangosi, dove una volta cadde rompendosi un braccio. Ma una settimana dopo si ripresentò all’allenamento col braccio ingessato. Al che “Chitto” lo scongiurò di non venire, perché rischiava di rompersi anche l’altro braccio: cosa che puntualmente accadde, come tuttavia puntualmente accadde che il Matteo tredicenne si ripresentasse al campo con due gessi. “Tu andrai alle Olimpiadi di Pechino per la maratona”, gli disse Chittolini, sbagliando solo la specialità: anche se Gian Paolo continua a giurare che Matteo era più portato per le distanze lunghe, e che se avesse potuto allenarsi due volte al giorno (cosa che non faceva mai, perché doveva studiare) oggi sarebbe ricordato come uno dei più forti maratoneti della storia italiana.

Comunque, si diceva, il dottor Villani si è comportato oggi, in emergenza sanitaria, come si comportava a metà anni Novanta: gesso o non gesso, tirando dritto. Grazie anche alle cure di papà Giovanni (2.45:06 in maratona, a 50 anni senza troppa preparazione - il quale peraltro si dice “sorpreso” di come il figlio abbia saputo gestirsi da solo), sta finendo la sua quarantena, approfittando del tempo forzatamente libero si allena in casa, ma non vede l’ora che un ‘tampone’ negativo (previsto appunto in questi giorni) lo riporti in pista, pardon in corsia e nelle stanze della rianimazione.

E alla fine dell’avventura, ci piacerebbe vedere finalmente il dottor Matteo a dimostrare quello che vale sul ‘nostro’ terreno, magari giusto in quella maratona di casa sua, la Salso-Fidenza-Busseto creata, come si diceva, dall’altro “Chitto”: dove qualche volta Matteo-atleta ha fatto capolino, giungendo per esempio secondo, dietro Lambruschini (in una sfida fratricida tra gli allievi dei due gemelli Chittolini), nella 10 km Salso-Fidenza; oppure vincendo simbolicamente, con Sara Galimberti, la Roncole-Busseto organizzata da “Spino” nel 2013, bicentenario verdiano, in anteprima della maratona.
È quasi un invito.

 
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Questa volta non siamo di fronte allo sportivo che scrive, o si fa scrivere, un libro: perché lo fanno tutti, perché se arrivo da Fazio il successo è assicurato, o più semplicemente perché se la mia vita interessa a me deve per forza interessare agli altri. No, Claudio Bagnasco (Genova 1975; residente a Tortolì in Sardegna dal 2013) è uno scrittore e docente di scrittura, autore con questo di sei libri, che ha cominciato a pubblicare volumi dal 2010 scoprendo invece il podismo solo molto dopo, nel 2016. Secondo la Fidal avrebbe corso tre maratonine tra il 2018 e il ’19 con un record di 1.38, ma le maxiclassifiche gli accreditano già cinque maratone a partire dal 2017, con una significativa progressione che l’ha portato al 3.33 di Carrara un anno fa.
Da qualche mese gestisce, con la compagna Giovanna, un blog letterario (https://squadernauti.wordpress.com), che ospita testi originali e recensioni, promettendo pure una sezione “oltraggi” che vorrebbe provare “a non avere paura dei limiti” e “non avere paura di offendere”. In un mondo dove la recensione è ridotta a marchetta, e i recensori di oggi rendono il favore a chi li ha recensiti ieri giurando ovviamente (gli uni e gli altri) sulla imperdibilità del libro, resto con la curiosità di vedere qualcosa in quest’ultimo gruppo, ma per ora lo trovo vuoto.
Chissà in quale categoria meriterebbe di stare la pagina che voi 22 lettori state scorrendo, se comincia col dire che il titolo è brutto, e la parola Runningsofia non merita di accrescere la mole dei vocabolari; certo, “filosofia della corsa” (sottotitolo) avrebbe allontanato i lettori per diletto e sollevato le sopracciglia dei lettori professionali. Ma ormai, i libri sulla corsa (nel senso di podismo) sono tanti (dal 1970 a oggi, 471 hanno nel titolo la parola “correre”, 1895 “corsa”) cosicché i titoli possibili, cominciando da “correre è bello”, sono quasi esauriti, e bisogna azzardare qualcosa di nuovo ma non troppo audace (“dromosofia”, o “filodromia”,come forse l’avrebbe intitolata un filosofo greco, oggi farebbero pensare ai dromedari): e l’inglese è sempre trendy, sebbene “running” appaia già in 2312 titoli (ma si capisce, non è tutto running in scarpette). Ma deve aver influito l’editore, che incurante del suo nome raffinato, evidentemente non soddisfatto della sua vecchia pubblicazione Filosofia della danza, ha imposto titoli come Rocksofia e Bikesofia, e chissà se rifiuterebbe un mio family book intitolato alla nonna Sofia, alla prozia e alla zia Sofia e last but not least alla nipote Sofia. 
A chi si rivolge il libro? La dedica d’autore è “a Simona e Agata, così imparano”, e fa venire in mente la dedica del primo libro autobiografico di Guccini, Croniche epafaniche (1989) “a Teresa, sperando che impari. Ad Angela, così impara”; affetti personali a parte, direi che il destinatario ideale non sia il podista (che troverebbe inutilmente pedanti le note a piè di pagina per spiegare concetti abusati come le ripetute o la pronazione o il testimonial) ma il lettore normale, l’homo sapiens sapiens che dopo le scuole ha abbandonato completamente l’“educazione fisica”, e con essa un approccio più naturale alla vita.

Ciò non toglie che già la stessa prefazione di Fulvio Massini (allenatore di Bagnasco), e le citazioni dello stesso tecnico nel corso del libro (10, se ho contato bene), orientino inizialmente la scrittura sulla falsariga dei manuali tecnici (abbigliamento, stile di corsa, metodologie di allenamento, perfino come respirare o allacciarsi le scarpe), ma senza cadere nell’iperspecialismo cartaceo, di cui sono piene le fosse e che a mio parere, dopo un iniziale entusiasmo, lascia indifferente il 90% dei praticanti.
Bagnasco vuole convincere chi non corre a passare dalla nostra sponda, per averne vantaggi nella salute fisica e soprattutto mentale: perché la sofferenza, innegabile almeno nelle corse più lunghe e in quella che insistentemente viene chiamata la gara regina, migliora la salute (checché ne pensino i proibizionisti dell’era-covid) ma soprattutto tempra la mente. Nel bene, e qualche volta nel male.
L’autore professa di non essere psicologo o sociologo, ma appoggiandosi anche ai suoi ispiratori e amici Gastone Breccia (11 citazioni), Paolo Maccagno (8 citazioni) e Roberto Weber (4) sa penetrare, spesso con finezza, nella mente e nell’indole del podista, e più in generale della persona “con” o “senza” podismo, cercando di trascinare chi non fa sport a vedere nella pratica quotidiana della corsa non un “di più” (da evitare se ci sono altre incombenze) ma una “attività connaturata”, che dà vantaggi sia nella versione “stanziale” (sempre sullo stesso percorso) sia nella modalità dell’“esploratore”, che ogni volta va alla scoperta di un tracciato nuovo.

Per fortuna, non è un elogio incondizionato, a prescindere, di qualunque esemplare della fauna podistica: non va bene, per esempio, rendersi schiavi dei cronometri millefunzioni, degli smartphone, dei selfie, della “sequela di baggianate” da infilare nei blog (p. 61), arrivando addirittura a una “ludopatia” in base alla quale non esiste più né il mondo né la famiglia. Trovo tuttavia a volte esagerate le critiche, che si rivolgono addirittura a chi per correre indossa abiti sgargianti o strani, o prima del via si lascia andare a una “logorrea da picnic” (così a p. 29) che sarebbero sintomi di paura e di fallimento; oppure a chi durante una maratona si pone come solo scopo il finirla, comunque vada. Il che – penso – è negativo se assunto come atteggiamento di base da parte dei collezionisti di ‘tacche’, ma altre volte si accosta all’eroismo, o comunque alla suprema forza di volontà, quando ti capita nel bel mezzo di una maratona (una storta, una tendinite, una vescica, e semplicemente l’esaurimento delle energie, lo sfinimento insomma), e tu decidi che comunque non salirai sulla vettura-scopa e al traguardo ci arriverai.

Senza generalizzare, credo che casi come questi ultimi rientrino nella “mistica della corsa”, cui è dedicata la seconda metà del libro, la più ‘filosofica’, pure nel senso che ad un certo punto bisogna seguire il ragionamento dell’autore nella sua logica interna, anche se questa logica pare a volte un tantino estremizzante. D’accordo, d’accordissimo che la corsa ci riavvicina allo stato di natura, anche nelle sue difficoltà, ci insegna a fallire e a rialzarci traendo ammaestramento dalle cadute, ci ammonisce sulla nostra finitezza aiutandoci a trovare il nostro equilibrio. Dove il ragionamento mi sembra un po’ spericolato, un tantinello esagerato, è nell’ultima decina di pagine, quando si comincia a dire che “correre è corteggiare la morte. È tentare l’impossibile travaso della morte nella vita”.

A questo punto, un qualche recensore da talk-show comincerebbe a toccarsi ed esclamare “pussa via!” o “li mortacci tua!”: preferisco piuttosto affidarmi al possibilismo non dogmatico delle parole conclusive (prima di un’appendice sulla maratona, dove le citazioni dai maîtres-à-penser o testimonials si sprecano): “Chissà se c’è una risposta giusta, e quale mai sarà. Vado a correre e a pensarci su. Venite anche voi?”.

 

Abbiamo parlato di: Claudio Bagnasco, Runnningsofia. Filosofia della corsa. Genova, Il nuovo melangolo, ottobre 2019, 127 pagine.

 

 
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31 marzo - Cadono come birilli le corse italiane, anche quelle di luglio; invece, la suggestiva eco-maratona di Monschau, che si svolge per boschi e collinette tra Bonn e Aquisgrana e la cui 44^ edizione (sui 56 e 44 km) è prevista per il prossimo 9 agosto, al momento tiene duro e manda un messaggio agli sportivi: continuate a correre e respirare aria buona! Ecco il messaggio inviato oggi:

Cari podisti, vi state ovviamente chiedendo, in questa turbolenta “stagione-Corona”, se la maratona di Monschau ci sarà o no? Su questo preciso punto nessuno oggi è in condizione di darvi una risposta sicura. Noi dell’organizzazione continuiamo a portare avanti tutta la preparazione, e speriamo che l’evento si possa svolgere regolarmente. Vi informeremo sollecitamente se ci saranno novità. Ma adesso la prima cosa certa è che tutta la nostra responsabilità deve indirizzarsi ad arginare quanto più si può la pandemia.

Grazie per la vostra comprensione, e rimanete sani! E fate il pieno di aria fresca, malgrado “Corona”. È stabilito chiaramente cosa adesso si può fare e cosa no. Noi della Monschau-Marathon ci atteniamo strettamente alle norme emanate dallo Stato e da ogni singolo Land. Tuttavia, per conservare la mente limpida, vi suggeriamo di farvi regolarmente un’uscita a respirare aria fresca. Fa bene, libera la mente e dà le ali ai piedi.

Impiegate un po’ del vostro tempo per fare un giro di passo, ad andatura allegra, di corsa più o meno impegnata [difficile rendere le sfumature dei tre verbi: laufen, joggen, rennen], da soli o con la famiglia, osservando rigorosamente le direttive pubbliche: tutto ciò fa bene e dà anche la possibilità di muoversi spensieratamente. Così riusciremo a sopportare un pochino meglio questa situazione contingente, e magari ci verrà anche qualche idea nuova…

Al momento, resiste anche l’elvetica Swiss-Alpine-Marathon di Davos, la gara su vari chilometraggi (la gara principe è sui 68 km) tra le montagne incantate di Thomas Mann, programmata per il 25 luglio, e che ugualmente oggi scrive agli sportivi:

Questi mesi e giorni ci stanno mettendo alla prova e non sono certamente facili per nessuno di noi. Stiamo osservando attentamente la situazione e ci prepariamo a ogni genere di eventualità. La cosa più importante è che voi e le vostre famiglie restino in salute. Sapete che tutto il mondo sta combattendo contro il Covid-19, e anche noi stiamo facendo la nostra parte: sono giorni del tutto eccezionali. Ognuno è impegnato e deve usare tutto il suo spirito di disciplina e di solidarietà per aiutare a vincere questa lotta contro il tempo e contro il virus. Noi ci mettiamo tutta la nostra fiducia ed energia e continuiamo ad agire per rendere possibile lo svolgimento nella data prevista del 25 luglio.
Data l’eccezionalità delle circostanze, abbiamo esteso fino al 30 aprile la possibilità di iscriversi col prezzo ridotto del secondo scaglione.

 
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Un altro dei tanti gesti di generosità che i gruppi podistici stanno facendo in questi giorni viene dai  “Lumaconi delle 5.55” di Bollate/Novate (Milano), che questo giovedì 26 hanno deciso di devolvere il ricavato della loro colletta all’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, al cui personale hanno indirizzato la lettera che segue.

Il Covid 19 è entrato prepotentemente nelle nostre vite. Tanti sono stati contagiati e per voi si è spalancato l’inferno. Fondamentale era evitare ogni forma di trasmissione: da qui tutta una serie di divieti, tra cui il correre. Tra le categorie sotto accusa per la diffusione del contagio c’è quella di noi podisti: untori, egoisti della peggior specie, narcisi della propria forma fisica. A dar fiato a tutto ciò quei quattro imbecilli che, nonostante il divieto, hanno continuato a correre. Forse anche a contribuire alla diffusione del virus, certamente a non dare quel buon esempio che invece la vostra categoria ha dato con la sua dose di sacro impegno quotidiano.
Non tutti i podisti, però, sono accumunati dalla medesima dabbenaggine.
Il nostro gruppo, i “I Lumaconi delle 5.55” non solo si è attenuto scrupolosamente alle regole, ma ha voluto fare qualcosa a favore di chi sta in prima linea, come Voi, a combattere. Ci siamo inventati un nuovo tipo di corsa: quello di essere solidali con chi invece deve correre all’ospedale per curare i malati. Da qualche settimana l’icona della lumaca del nostro gruppo non rappresenta solo la lentezza con la quale tanti di noi corrono. La casa della lumaca è diventata anche il nostro #iorestoacasa.
Noi non siamo una Asd,non siamo nulla di burocratico, siamo solo delle ‘persone’ prima di ogni cosa, persone che corrono, persone con un cuore grande che ha smesso di correre e di rispettare il bene altrui stando a casa.
Per le gare ci sarà tutto il tempo che vorremo per la vita no.
Nonostante vicino a noi ci fossero altre strutture e personale che lotta come Voi, la nostra scelta su chi aiutare ha varcato la provincia dove viviamo. Abbiamo scelto il vostro ospedale. Quello di Bergamo, nella città dove tante volte siamo venuti a correre la nostra domenicale tapasciata.
È con immenso piacere che confermiamo di avervi bonificato la somma di 1.100 € sul vostro conto corrente.
Sarà forse poco, certamente non farà la differenza per l’ospedale Papa Giovanni XXIII. Vogliamo però sia un segno tangibile che non tutti i runners sono degli imbecilli. A voi il nostro incoraggiamento per sconfiggere il Coronavirus; a noi la speranza che, terminata questa brutta storia, si possa tornare a correre sulle vostre strade, rimirando dall’alto della città Alta tutta la bella Bergamo.
Forza Berghem, al se mola mia: I Lumaconi delle 5.55 sono con voi!

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I podisti sono gli ‘untori’? (parola che adesso tutti usano, perfino Bonaccini che di libri ne ha letti pochini e difficilmente tiene sul comodino una copia dei “Promessi sposi”). Quand’anche fosse vero, e così non è: perché mi piacerebbe vedere la statistica su quanti partecipanti alla maratona e gare collaterali di Salso-Busseto del 23 febbraio si sono ammalati di Covid…
Ma pensiamo pure al peggio, sia pure quello che sostengono gli antisportivi; e allora il podista, e da anni paziente 1 del podismo (nel senso che settimanalmente pazienta ore e ore sui percorsi lombardi a fotografare proprio tutti) ha deciso, in queste settimane di forzata reclusione, di aiutare gli altri: nella minore delle ipotesi, aiutare familiari, vicini e amici a respingere quegli attacchi virali che secondo alcuni sarebbero diffusi dai corridori ‘illegali’ dei nostri giorni.
Dunque, in un primo momento l’ex tornitore Mandelli, stante la scomparsa dal mercato delle agognate ‘mascherine’ (ovvero la constatazione che quelle offerte dalla Protezione Civile, bontà loro, fanno abbastanza compassione), è andato a ripescare in cantina le mascherine operaie che usava per schivare le polveri grosse e sottili delle officine (o più spesso non usava: eppure è arrivato agli ics-anta in ottima salute).
Ne aveva ancora parecchie, ma è chiaro che quelle finiscono presto. Allora, sfruttando la disponibilità di manodopera a basso prezzo, come è sempre stata quella della signora Giancarla (che indossa la mascherina anche quando scende le scale per andare al cassonetto), e la sua inventiva da lavoratore manuale, o manovale che dir si voglia, ha brevettato senza chiedere diritti d’autore una sua speciale mascherina, anzi due tipi.
Uno composto di quattro strati di Scottex, due per lato, a racchiudere una striscia di pellicola o di carta da forno. Un altro dove il rivestimento esterno è fatto di cotone (lavabile), ricavato dai bei tovaglioli della dote risalente ai primi anni 70: cucito a taschina, nel cui interno si mette la carta da forno, sostituibile quando si lava l’involucro esterno.

Matteo Villani

Volete dire che proteggano meno delle FFP3? Sarà, ma intanto fermano gli eventuali schizzi alla Gad Lerner o alla Massimo Gramellini o Massimo Cacciari, che potrebbero uscirti mentre parli o tossisci o ti incavoli davanti al fondotinta di Lilli Gruber.
Cut&paste, come dicono gli informatici, metti in azione la Singer di casa, e così si avvia una produzione in serie che servirà prima a saturare le necessità di figli e nipoti (vedete nella galleria qui sopra, prima una nipotina di Roberto che si è assoggettata alla prova, e poi, visto l'esito positivo, tutta la famiglia che si è 'mascherata'), indi fatalmente si espanderà al condominio: magari anche per far capire a quei certi inquilini che, giunti ormai a una certa età, hanno deciso di essere superiori a leggi e norme di buona convivenza, e  ogni giorno ricevono figli nipoti e nipotesse allegre, invasive e senza mascherina. Chissà che l’esempio de Los Mandellos non insegni al prossimo che si può pensare un po’ più in là del proprio comodo.
E poi, siccome quel proverbio dice che “il bene è qualcosa come il fuoco, che più lo appicchi più si diffonde”, non è detto che la produzione non esorbiti dal quartiere di Concorezzo e prenda le strade, un tempo popolate di corridori e oggi solo di gente che va a fare la spesa (magari, un  po’ troppo spesso). Dai giornali di oggi sappiamo che il comune di Sommariva Bosco ha commissionato a un laboratorio artigiano locale la confezione dei presidii per tutta la popolazione.
E i beneficiati ascolteranno di buon grado la ‘predica’ che il benefattore Roberto gli impartirà, da podista, amico dei podisti ma soprattutto della salute pubblica: per favore, saltate qualche allenamento, che per arrivare allenati al supertrail della Valmalenco c’è tempo!

 
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In dieci giorni, una delle società più giovani del podismo modenese, Modena Runners Club Asd, tra un comunicato e l’altro relativo all’attività sportiva (via via ridotta, dopo l’ultima occasione agonistica dei regionali di cross a Imola il 22 febbraio, poi gli allenamenti ‘di gruppetto a distanza di sicurezza’, poi le corsette individuali, poi quasi più niente) ha lanciato una raccolta di fondi a favore del Policlinico di Modena (nel quale lavora uno dei soci fondatori), con riferimento particolare alla lotta contro il Covid 19.
E così il 19 marzo, accanto alla notifica del decreto regionale ‘antipodisti’  (salvo la ‘prossimità’, interpretabile forse in 500 metri), e alla esortazione “Ragazzi, stiamo a casa senza troppi giri di parole… nessuno deve correre le olimpiadi e qualche esercizio in casa lo possiamo fare”, arrivava la notizia che la cifra raccolta stava già sui 2000 euro, che la sera del 20 erano già 2500, e il 25 marzo erano 2900, e con un ultimo arrotondamento presidenziale diventavano tremila (i tesserati sono in totale 185).
La cifra è stata versata tramite bonifico bancario al Policlinico di Modena lo stesso mercoledi 25 marzo, giorno in cui la provincia modenese registrava altri 14 morti per il contagio (o “con” il contagio: i conti esatti si faranno forse a mente più riposata), e il sindaco di Carpi proclamava tre giorni di lutto cittadino (sia pure condendo l’annuncio con quattro urlacci in video che dimostrano quanto l’emergenza abbia ‘agitato’ anche lui).
Il presidente di MRC Alberto Cattini commenta: “3000 euro raccolti in sole 2 settimane, che dimostrano l’amore verso le eccellenze della propria città – come il Policlinico - dove tutti adesso dobbiamo restare uniti. Senza cadere in banali polemiche tra runners o non runners, MRC vuole rendere onore a chi combatte in trincea questa guerra invisibile, mettendo a repentaglio la propria vita per salvarne molte altre”.

 
 
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Milano, 23 marzo, ore 21 - Quattro giorni fa avevamo pubblicato le drammatiche notizie che venivano dal campioncino lombardo, figlio della conduttrice Rai Tiziana Ferrario, Edoardo Melloni.

http://podisti.net/index.php/in-evidenza/item/5923-drammatico-messaggio-di-edoardo-melloni-dall-ospedale-sacco.html#!Melloni_Edoardo_Canegrate_2020_b_foto_Roberto_Mandelli

Ma oggi è una bella giornata: segna la guarigione di Mattia Maestri (il presunto “paziente 1”) e anche di Edoardo, che appena tornato a casa ha mandato agli amici e simpatizzanti, dunque anche ai nostri lettori, questo messaggio:

Finalmente dimesso! Aprire la porta di casa è stato bellissimo, ma lasciare l'ospedale Luigi Sacco è stata la vera emozione: salutare i medici, gli infermieri, gli operatori sanitari ed il cappellano che dopo di me avranno altri pazienti a cui rivolgere le proprie cure. A tutti i lavoratori dell'ospedale che ho incontrato, ed anche a coloro che non ho incontrato ma che sono in questo momento impegnati in ogni ospedale d'Italia, dico GRAZIE. Grazie perché so che il prossimo paziente riceverà le cure come lo ho ricevute io, vedrà gli stessi sorrisi che ho visto io e sentirà lo stesso calore che ho sentito io.
Grazie per essere lì dentro a combattere col sorriso. Non perdetelo mai, nemmeno nei momenti più cupi, perché finché ci sarà il vostro sorriso lì dentro, noi avremo speranza.

Matteo Villani

È chiaro che tanto Edoardo quanto Mattia avranno bisogno di un buon periodo di convalescenza e recupero, e tornare a correre non è il loro primo pensiero, né tantomeno l’ossessione loro e nostra. Ma ci piace citare, in conclusione, la raccomandazione pubblicata oggi dall’Organizzazione Mondiale di Sanità (OMS):

Durante questi difficili momenti, è essenziale non perdere di vista la vostra salute fisica e mentale: ciò vi aiuterà non solo a lungo termine, ma darà una mano a combattere il Covid-19 se per caso l’avete contratto. Si raccomanda un’attività fisica per gli adulti di mezz’ora, per i bambini di un’ora al giorno.

 
 
 
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Solo due mesi fa (19 gennaio) intitolavamo una nostra cronaca con Cross per Tutti a Canegrate: Edoardo Melloni vince. Parlavamo del "Roccolo Cross Country", 2° tappa del circuito: La giornata si infiamma con la bella prova di Edoardo Melloni (CUS Pro Patria Milano) tra gli "Elite", che ha messo a frutto gli allenamenti appena conclusi in Kenia Gara Elite (6 km) - Un nutrito gruppo di atleti del CUS Pro Patria Milano si presenta agguerrito alla partenza. A metà gara si formano però due coppie: Edoardo Melloni e Aymen Ayachi lottano per la vittoria, Thomas Previtali (US Atl. Vedano) e Andrea Nervi (Fanfulla Lodigiana) per il terzo posto. Nell'ultimo giro Melloni cambia marcia e risolve la gara. Per lui 8 secondi di vantaggio su un combattivo Ayachi.

Matteo Villani

http://podisti.net/index.php/cronache/item/5607-cross-per-tutti-a-canegrate-edoardo-melloni-vince-najla-aqdeir-incanta.html
La stagione era continuata felicemente per il campione 29enne, col secondo posto ai campionati lombardi indoor sui 3000 metri (Padova 25 gennaio, 8.17:35), e la settimana successiva con un 33:57 nei 10mila su strada a Magenta.
Il 9 febbraio, ritorno al Cross per tutti, nella tappa di Seveso, dove era attesa una sfida a due tra Edoardo Melloni (CUS Pro Patria Milano), vincitore a Canegrate, e il bresciano Enrico Vecchi (Atl. Rodengo Saiano), azzurrino specialista delle siepi. I due guidano da subito il gruppo insieme agli altri cussini Aymen Ayachi e Matteo Geninazza, poi il gruppo di testa si sfalda nell’ultimo chilometro. Melloni prova a forzare, Vecchi risponde e rilancia con un’azione irresistibile per tutti. Al traguardo sono 3 i secondi di vantaggio per Enrico Vecchi, Melloni mette in fila i compagni di squadra Ayachi e Geninazza.

http://podisti.net/index.php/cronache/item/5725-al-cross-per-tutti-di-seveso-vincono-enrico-vecchi-e-sara-gandolfi.html

Poi la vita ha preso un’altra piega, come testimonia il messaggio di Edoardo (figlio della celebre giornalista Rai Tiziana Ferrario), inviato oggi dall’ospedale milanese Sacco, tristemente famoso per essere uno dei luoghi dove sono curati gli affetti da Covid 19.

Se pensate che essere giovani, forti ed in salute vi salvi ecco una news (e questa non è fake): vi sbagliate.
I virus sono democratici, non guardano mica in faccia. Puoi essere il pensionato che va a comprare la frutta al mercato o puoi essere il presidente di una nazione. Lui non lo sa e a lui non importa.
Potete essere fortunati e non contrarlo. Potete essere comunque fortunati e contrarlo senza essere sintomatici. Oppure vi può andare peggio. Il problema è che non potete sapere a quale categoria appartenete. Avete voglia di rischiare?
Ah, visti gli innumerevoli messaggi-catene di whatsapp che ricevo in cui mi si comunica che basta acqua calda, limone e zenzero per sconfiggere il virus. Fatemi e fatevi un favore: chiedete (o verificate) sempre la fonte delle informazioni.
Qui purtroppo non mi danno tisane allo zenzero ma idrossiclorochina e lopinavir e ritonavir, usati rispettivamente per artrite ed HIV.
Se non avete la necessità di dovervi obbligatoriamente recare al lavoro, #stateacasa e tutto finirà presto. Io da qua ne esco quanto prima.

 
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15 marzo: il calendario podistico dell’Emilia avrebbe previsto tre maratonine molto apprezzate: la 46^ Corri con l’Avis di Imola, la maratonina di primavera di Rimini, la più giovane Mezza di Reggio. Ovviamente non se ne fa nulla, e certo è meglio così; allo stesso modo che per le gare più lunghe del centro-sud Italia, a partire dalla 9^ Strasimeno che proponeva l’intero giro del lago (58 km) o vari ‘ritagli’ tra cui la canonica distanza di maratona, per farsi una ‘tacca’ (come la definisce l’affascinante segretaria del Club Supermarathon Italia).
Ma gli atleti professionisti hanno il permesso di allenarsi: europei, Olimpiadi, grandi maratone di autunno restano per ora in piedi. E gli altri, come si arrangiano?
Aleggiano per l’etere gli ammonimenti e le gride dei pubblici amministratori, e i proclami un po’ da Minculpop “restate a casa”. Nel centro dell’Emilia (la regione che insieme a Veneto e Lombardia sta pagando il tributo più alto, sia per le maratone saltate sia per la ben più grave situazione sanitaria e ospedaliera, il cui picco è previsto per questa fine settimana) si fa sentire forte la voce dell’assessore alla sanità Sergio Venturi, un medico e un eccellente amministratore, accantonato dopo le ultime elezioni ma che la “provvida sventura” manzoniana, sotto forma dell’infezione da Covid capitata al suo improvvisato successore, ha richiamato in servizio: diciamo pure, una specie di Bertolaso (medico pure lui), nel ruolo (l’uno e l’altro) del romano Cincinnato.
Dunque Venturi, oltre a dirigere da par suo la sanità emiliana, ogni giorno fa una diretta su Fb per informare sulla situazione: in maniera pacata, non urlata, ragionata. Ebbene, per la prima volta, nella sua apparizione di lunedì 16, Venturi è sembrato uscire leggermente dai gangheri, specialmente verso la fine della sua mezz’ora (dal minuto 24 al 29)

https://www.facebook.com/RegioneEmiliaRomagna/videos/231131638278730/

che i giornali hanno riassunto con “no alle passeggiate o alle corsette di cazzeggio”. I contenuti, se non proprio le parole testuali, suonano così:

Smettete di pensare che questa sia un'allegra scampagnata (cita anche il caso di un raduno festaiolo di otto amiconi ai confini tra le provincie di Reggio e Mantova: smentiamo che fosse un incontro al vertice tra le famiglie Morselli e Rossi!!). Non è più il tempo. ci stiamo giocando il futuro di questo paese: rischiamo che il nostro servizio sanitario non riesca a far fronte alle esigenze delle prossime settimane, se non rimanete a casa vostra. Se non lo fate, qualcuno prenderà provvedimenti di carattere più coercitivo. lo abbiamo già fatto, ma vedo che ancora qualcuno fa finta di nulla. Troppe persone stanno per le strade anche quando non è strettamente necessario, non sanno fare a meno della corsetta mattutina.  Pensate a quanti, 24 ore al giorno, lavorano in situazioni a volte non sicure e si prodigano per salvare la vita dei malati. Qualcuno fa finta di nulla, gira per le strade senza mascherina, ma tenete presente che chi abbiamo di fronte non ha scritto in faccia ‘sono un portatore sano di coronavirus’. Nei prossimi 10 giorni ci giochiamo il futuro della sanità del nostro Paese.  Se non si inverte la tendenza, alla fine staremo in casa tutti. Abbiamo chiuso le palestre e le piscine e (da qui, testuali parole) Attenzione, potremmo anche chiudere la possibilità di andar fuori a fare la corsetta della mattina.

Matteo Villani

Dunque, sono gli ultimi giorni prima del coprifuoco totale? Lo stesso lunedì, i sindaci di Formigine (Maria Costi, centrosinistra) e Sassuolo (Gian Francesco Menani, centrodestra) emanano direttive quasi identiche:

Formigine: Considerato che, nonostante le prescrizioni in essere, sono stati registrati comportamenti non rispettosi del divieto di assembramento presso parchi e giardini pubblici e il mancato rispetto della distanza interpersonale (almeno 1 metro)… Valutato necessario ed indifferibile: procedere ad una totale chiusura al pubblico di parchi , giardini ed aree verdi pubbliche; vietare l'utilizzo delle panchine, ovunque collocate sul territorio comunale; disciplinare puntualmente le “comprovate esigenze primarie” previste dall' art. 1, comma 1, lett. a) del DPCM 8 marzo 2020, relativamente alla gestione quotidiana degli animali domestici

ORDINA  Le seguenti ulteriori e specifiche prescrizioni in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-2019 nel territorio del Comune di Formigine, valide dalle ore 20 del 16.03.2020 a tutto il 25.03.2020, fermo restano il Divieto di assembramento e l’obbligo di distanza interpersonale ( almeno 1 metro): a) chiusura al pubblico di parchi e giardini pubblici b) divieto di utilizzo delle panchine, ovunque collocate sul territorio comunale (…) d) puntuale disciplina delle “comprovate esigenze primarie” previste dall' art. 1, comma 1, lett. a) del DPCM 8 marzo 2020, come segue: gestione quotidiana degli animali domestici, ovvero passeggiata ed espletamento dei bisogni fisiologici dell’animale potranno avvenire nel raggio di 500 metri dall’abitazione del proprietario dell’animale ed avendo cura di avere al seguito il materiale per la raccolta delle deiezioni.

Sulla stessa linea Sassuolo, che però prolunga la scadenza al 3 aprile: chiusi parchi e giardini pubblici, divieto di utilizzo delle panchine, divieto d’accesso alla ciclabile sul Secchia. Nel dettaglio:
è fatto divieto di accedere transitare e stazionare all’interno dei parchi e dei giardini pubblici dalle ore 18 alle successive ore 06 e dalle ore 08 alle ore 16 (dunque la famigerata “corsetta” si può fare dalle 6 alle 8, dalle 16 alle 18).
La gestione quotidiana degli animali domestici passeggiata ed espletamento dei bisogni fisiologici potranno avvenire dalle ore 00,00 alle ore 24.00 di ogni giorno, a condizione che dette attività si svolgano nelle immediate vicinanze dall’abitazione del proprietario dell’animale ovvero nel raggio di 500 metri, avendo cura di avere al seguito il materiale per la raccolta delle deiezioni.
Divieto di utilizzo delle panchine, ovunque collocate sul territorio comunale, nell’arco dell’intera giornata.
Divieto di utilizzo delle piste ciclabili ubicate all’interno del Parco fluviale Secchia o ad esso adducenti, nell’arco dell’intera giornata
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Matteo Villani

È forse il colpo più duro per i jogger e camminatori, che nei giorni precedenti, fino a domenica, avevano affollato le bellissime piste attrezzate lungo il Secchia, ripetutamente teatro di gare podistiche.
Cose del genere sono attivate pure nel nord della provincia modenese, Carpi e Mirandola per esempio; mentre Medicina, a nord est di Bologna lungo la direttrice per Ravenna, è isolata totalmente causa una diffusione più elevata del contagio.
E nei capoluoghi? Bologna è stata fra le prime a chiudere i parchi. Dopo le scuole, che avevano chiuso già nell’ultima settimana di febbraio (con la tragicissima conseguenza della morte il 28 febbraio di Matteo Prodi, pronipote di Romano in quanto nipote di Vittorio – fratello dell’ex premier -, il quale non potendo andare al suo liceo era uscito in bicicletta sui colli sopra casa sua, finendo investito e ucciso da un’auto), l’università, che era rimasta semiaperta nei primi giorni del mese, ha chiuso del tutto i portoni per gli studenti, cui restano solo lezioni ed esami online. Piazza Verdi, tra università e teatro, uno dei centri più vivi dell’aggregazione giovanile (e purtroppo non solo di quella) è quasi deserta, a parte i soliti 8-10 tossici o sfaccendati (il commercio delle bici rubate è in crisi, chissà se il decreto aiuterà anche quello), e le forze dell’ordine che li controllano a debita distanza; al tramonto, una ragazza in scarpette risale di corsa via Zamboni, un altro svolta per via Mascarella, dove tutti i ristorantini coi loro déhors sono chiusi, e si dirige forse verso la Montagnola, chiusa.
A Modena sembrava ci fosse l’intenzione di chiudere i parchi, anche se nella pratica i pochi realmente chiudibili (il “Modena Park” di Vasco, i Giardini ducali, Villa Ombrosa) hanno i cancelli spalancati pure di sera; sempre aperti l’Amendola Nord-Sud e il 22 aprile. Qualche irriducibile osa ancora correrci, in rigorosa solitudine, prima che lo vietino del tutto. Commuove la mamma podista che dopo le 19 sta correndo lungo il “Parco” per eccellenza, il giro dei viali percorso da tante gare o camminate, e dalla defunta maratona di Carpi che qui giungeva al km 20: la seguono disciplinati, attenti e felici, i due figli in biciclettina.
Poi restano gli argini dei due fiumi: il Secchia, evidentemente non ancora vietato, caro ai podisti per le gare del quartiere Madonnina e della confinante Campogalliano (attenzione, meglio non varcare i confini comunali!); e il Panaro, il cui argine sinistro, in territorio comunale modenese per una quindicina di km, è pure calpestato da gare. Un po’ a rischio il ‘percorso vita’, perché il ponticello che attraversa la confluenza del Tiepido nel Panaro instrada verso San Donnino (modenese), ma attraversando i comuni di Castelfranco e forse anche di Nonantola e San Cesario, dunque il divieto di uscire dal comune potrebbe sussistere. Senza rischio invece la direzione nord, almeno fino al ponte della Tav e a quello di Navicello verso Ferrara, dopo di che si entrerebbe in comune di Bomporto. Si parte dalla Fossalta, teatro nel 1249 di una sanguinosa battaglia tra Bolognesi e Modenesi in cui fu fatto prigioniero Re Enzo figlio di Federico II, e che ispirò Tassoni per la “Secchia rapita”, e si risale verso nord: mentre sotto, nella campagna, qualcuno comincia a sistemare le viti, e un apicultore (dotato di mascherina meno lugubre di quelle antiCovid, e spruzzando il fumo come insegnato dagli avi) toglie il miele dalle arnie, si può passeggiare o corricchiare nella coscienza di non fare del male a nessuno. E si fornisce materia a Roberto Mandelli per la sua ennesima creazione d’arte.
Carpe diem, quam minimum credula postero.

Ieri una corsa in salita, mi sono trovata al punto che solitamente rappresenta il momento in cui inizia la discesa e ho deciso di procedere. Mi si è offerta la possibilità di andare oltre. In quella parte del paesino le persone hanno gli abiti e i comportamenti gentili della gente di montagna, portano carriole di legna, gerle in spalla, battono i ricci nel bosco per estrarre le ultime castagne rimaste, sorridono incrociandomi, ci salutiamo. Mi è piaciuto salire, entrare nel bosco e sentire i piedi leggeri sul sentiero.

È uno squarcio di bella prosa che mi sento di proporre come trailer, come invito a leggere il libro per chi non lo conosce: mi riferisco a  Qualcosa per cui correre di Ariel Shimona Edith Besozzi (Gilgamesh Edizioni, Asola MN, 228 pp. per 15 euro; la versione Kindle è presentata coi sottotitoli  Correre naturale - Correre cambia la vita).
Peccato però che questo brano, e anche le 3-4 pagine che lo seguono (quasi tutte alla sua altezza letteraria), si trovi a p. 144; e chi è arrivato qui abbia dovuto sorbirsi fino a questo momento un prolisso diario quasi quotidiano, dove noticine preziose sono soffocate da una marea di considerazioni ripetitive, non scremate, messe giù con una proprietà stilistica che tuttavia non si risparmia una decina di refusi o errori di altro genere. Per un maratoneta volgare e illetterato, ad esempio, colpisce che in un libro dedicato alla conquista della prima maratona la distanza sia quantificata a p. 120 in km 42,156; che alle pp. 181, 190 e 205 diventano 42,159 (mentre la maratonina a p. 166 risulta di 21,056).
Piccolezze, sicuramente, ma discese da quella mancanza di limae labor, da quella compulsione alla scrittura (più volte autodenunciata: mi sto scordando di scrivere un sacco di cose, ho paura di dimenticare dei pezzivorrei poter registrare tutto… vorrei scrivere ogni giorno; mai combattuta) secondo cui tutto quanto importa all’autrice debba per forza importare anche al lettore, il quale a sua volta ben difficilmente resisterà a leggere tutto il libro (e farvi annotazioni, segno di raccoglimento e partecipazione). Ne sono prova le recensioni (per modo di dire) apparse finora, di cui l’autrice dà conto puntuale in uno dei suoi blog (Diario di Ariel Shimona Edith), ma che sembrano ridursi a ricopiare o tenuemente rielaborare le autopresentazioni sparse in varie sedi, talora scopertamente firmate dal marito della scrittrice stessa.
Il libro è stato stampato nel gennaio 2020, ed a marzo i due mensili più noti nell’ambiente podistico l’hanno, per dir così, recensito: la nota di “Correre” (marzo, p. 91) trascrive integralmente (senza dirlo) la quarta di copertina del libro, con la sola aggiunta che l’autrice è “già una delle protagoniste, 2 anni fa, delle pagine al femminile della nostra rivista”. Un po’ più di riguardo, se non altro di degnazione, per una co-équipier si poteva avere: ma almeno, la lunghezza della recensione è circa doppia di quella di “Runners World” dello stesso marzo (p. 13), con la differenza che RW ricopia solo le prime 8 delle 16 righe della copertina, mentre “Correre” arriva a lambire la riga 15 e addirittura, in un sussulto di indipendenza, osa trasformare in “si dice / si ha” i “diciamo /abbiamo” dell’originale.
Insomma, l’autrice scrive il libro, il marito prepara la recensione, un qualche Vincenzo Mollica ci aggiunge le sue trombe. Purtroppo, gli ispiratori del sottoscritto in quanto recensore restano Giovanni Boine (quello dei Plausi e botte) e Karl Kraus (cui si devono frasi come Quando non si sa scrivere, un romanzo riesce più facile di un aforisma; e soprattutto Bisogna leggere due volte tutti gli scrittori: i buoni e i cattivi. Si riconosceranno i primi, si smaschereranno i secondi).
Il titolo dell’opera rimanda, senza dirlo (ma è chiaro che i lettori elettivi cui si rivolge quest’opera lo capiscano), al romanzo di David Grossmann Qualcuno con cui correre: lì, il qualcuno era una cagnetta, animale intelligente e docile che stabilisce un legame di affinità col compagno di scorribande:

Il ragazzo e la cagna galoppavano per le vie di Gerusalemme, sconosciuti l’uno all’altro ma legati da una corda, come se non volessero ammettere di essere davvero insieme eppure cominciassero a imparare, come per caso, piccole cose l’uno dell’altro: il modo di drizzare le orecchie nei momenti di eccitazione, il tonfo delle scarpe sul selciato, l’afrore e tutte le sensazioni che una coda può esprimere.

In questo libro invece, il qualcuno è senz’altro il marito della scrittrice, che la accompagna, aspetta, conforta, rialza: al punto che possiamo vedere nel libro un inno all’amore coniugale, benedetto e benvenuto in un mondo popolato da “compagni” o “fidanzate” senza vincoli. Amore coniugale che però sembra alquanto possessivo (quasi, ci scusino gli interessati, come tra cagnolino e padrona), dato che il lui non è mai chiamato altro che “mio marito”, quasi non esistesse come persona, ma solo in quanto appendice della signora Edith. Lo stesso sembra apparire dalle altre notazioni sugli affetti familiari: pregevoli (specie quelle sui nonni), ma sempre con perno nell’autrice, verso cui deve pendere anche “la mia adorata sorellina” (così chiamata a pp. 173 e 175); e anche “l’amica con cui ogni tanto vado a correre” (fuggevolmente incontrata in bus a p. 193) è una comparsa, della cui compagnia apprendiamo solo qui senza che mai la incontriamo in uno dei tanti allenamenti ‘veri’.
Il qualcuno cancellato dal titolo (ma non dalle pagine) diviene allora un qualcosa: concetto molto largo in cui può starci di tutto, compresi l’amore coniugale e una volontà fortissima di autoaffermazione, ma che sembra di individuare nell’amore per la propria patria ideale, Israele, e nei valori da essa rappresentati. Più volte la scrittrice ricorda le presentazioni, a partire dal maggio 2016 (il diario comincia dall’ottobre 2015 e finisce nel febbraio 2017), quasi sempre impreziosite da “donne bellissime” (pp. 103, 104, 117), del suo precedente libro Sono sionista, a quanto pare un’altra autobiografia che (dice un soffietto editoriale) narra “la trasformazione dell’autrice, l’abbandono delle sue precedenti convinzioni e degli ‘antichi idoli’, gli anni di impegno politico a sinistra, trascorsi coltivando assetti mentali e idee poi trasformate dall’incontro con quella ‘terra antica e giovane, proiettata verso il futuro e con antichissime radici nel suo passato millenario’, superando la vecchia politica per abbracciare un’etica di comportamento condivisa e condivisibile”: “oggi un’altra donna, dopo Oriana Fallaci e Fiamma Nirenstein, anch’essa con un passato di sinistra, afferma con orgoglio e determinazione il proprio essere sionista”.
Ecco dunque precisarsi il qualcosa, che diviene Run against terrorism (titolo della sezione di luglio 2016, pp. 77-98; poi 162 ss.): forse la più impegnata politicamente contro “questa degenerazione dell’essere umano chiamata Islam radicale”, nel lassismo dei politici occidentali per cui colpa si concede “che la morte propugnata da questi nazi-islamisti continui a colpire, torturare e sgozzare chiunque non abbracci l’Islam radicale” (79). Il qualcosa diviene la corsa, “affinché la vita prevalga”, e trionfi “una profonda fiducia nel genere umano, per … trasformare la tristezza in rabbia, poi in scelta, poi in battaglia e quindi in vita”.
Non sono altrettanto convinto di questa funzione politica della corsa in sé: che diviene invece più chiara nella scelta dell’autrice  (e/o del marito) di esordire in maratona scegliendo quella di Tel Aviv del febbraio 2017, e di ‘crearsi’ scarpe da running con la scritta Israel/Love. Ecco dunque che il lettore-appassionato di corsa potrà fare la tara dalla ripetitiva e ossessiva autoanalisi dell’autrice, autodefinita pure “runner cerebrale”, e contrassegnata dal pleonastico ricorrere di possessivi e pronomi personali:

Sento che mi devo affidare a qualcosa che è in me, ma che non ho esercitato per anni. Correndo ho incominciato a lasciare lo slancio e il passo al piede, ma questo infortunio mi ha bloccata, mi ha riportata a pensare, a guardare dove metto i piedi, a consegnare agli occhi [sic]. Gli esercizi servono per ritornare a confidare nel mio istinto. Per correre davvero devo fidarmi dei miei piedi, delle mie caviglie, delle mie gambe e delle mie ginocchia (p. 111).

Mi ha restituito il respiro, ho pensato al mio cuore, ho ascoltato la frequenza dei miei passi alla ricerca della leggerezza, quella della terra, dell’acqua e della pietra. Le gambe mi si sono bloccate soltanto quando hanno raggiunto l’asfalto, pesanti, lente, legnose. La mente ha saputo dominare la situazione e riportarmi a casa. Tengo lo sguardo alzato, mi affido e mi fido dei miei piedi. Vado, non mi fermo, non esito, corro. Recupero il filo dorato che mi tiene legata al cielo e quello che mi tira dal bacino e fa rullare le anche (pp. 130-131).

Mi sento reattiva e dinamica. Anche se sono stanca difficilmente mi fermo, è come se la vita si fosse aperta a me e io desiderassi compierla fino in fondo. Mi rendo conto di quanto io sia stata la peggiore nemica di me stessa negli anni, soprattutto da giovane, di quanto lasciando prevalere la pigrizia e il pensiero fine a se stesso abbia indebolito non soltanto i miei muscoli ma anche la mia capacità di vivere con intensità (p. 146).

Fatta dunque la tara (anche dalle ripetute riflessioni sul ciclo femminile dell’autrice, sui mal di testa e di pancia, l’insonnia, “l’espletamento delle funzioni mattutine” ecc.), il lettore di cui sopra potrà seguire in compartecipazione l’ascesa di Edith, da una vita grigia d’ufficio e “dall’assenza di persone gioiose” (p. 201: ma sarà poi vero che solo in Israele, e non anche nella opaca Milano o la più vivibile Bassano, le gente ti lasci le libertà e le soddisfazioni di cui alle pp. 207, 213 e altrove? E sarà vero che l’uccidere gli animali per dissanguamento sia più umanitario che sparargli un colpo in testa come fanno i crudeli cristiani carnivori, pp. 158, 220??), da una certa pigrizia inculcatale in famiglia o assunta per autoprotezione, alla volontà di andare sempre oltre i propri limiti, al fissare il ritorno dall’allenamento ogni volta mezzo km più in là, al soffrire per le cadute nei trail ma superare gli inevitabili dolori per posture errate o rigidità di movimento.
Ecco allora che le ultime cento pagine emergono dal tran-tran diaristico, senza autocensura né riordinamento (quello che invece seppero fare i grandi diaristi come S. Agostino, Montaigne, Pascal, Proust, fino a Primo Levi e Carlo Levi e il Guareschi dei lager), e portano il lettore a vivere col personaggio-autore l’avversione per le palestre e il tapis roulant in contrapposizione alla corsa in natura, gli allenamenti sempre più gioiosi, anche sotto la pioggia e pensando alla favola bella di Rocky contro l’ipertecnologico Drago, i saluti dei bimbi per strada, le coccole al gatto in comproprietà, e infine la partenza, lo sbarco a Tel Aviv, i preliminari della gara, e infine (ma siamo già a p. 206,  meno 8 dalla conclusione del racconto) la maratona! (il punto esclamativo è nell’originale, e dice più di tanti verbosi arzigogoli).
Maratona che non andrà tecnicamente come sperato (ma l’autrice saprà poi fare di meglio a Ravenna 2018, quando si permetterà addirittura, incredibilmente, di distanziare il marito di dieci minuti), ma che, anche nel superamento del dolore, porterà la happy family a superare il traguardo con le mani unite in alto, e non senza lacrime: già versate al via (p. 207), e di nuovo alla partenza per l’Italia, che “mi sta strappando dalla mia Terra, da mia madre. Fa male, molto male”. Eppure

resta l’esperienza vissuta e la possibilità di costruire su questa esperienza una nuova storia, la mia, la nostra. Quella di chi, una volta che ha cominciato a correre, non riesce più a farne a meno. Infatti questa non è la fine, piuttosto è l’inizio della storia.

Aspettiamoci dunque un’altra puntata.

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