Direttore: Fabio Marri

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Fabio Marri

Fabio Marri

Probabilmente uno dei podisti più anziani d'Italia, avendo partecipato alle prime corse su strada nel 1972 (a ventun anni). Dal 1990 ha scoperto le maratone, ultimandone circa 280; dal 1999 le ultramaratone e i trail; dal 2006 gli Ultratrail. Pur col massimo rispetto per (quasi) tutte le maratone e ultra del Bel Paese, e pur tenendo conto dell'inclinazione italica per New York (dove è stato cinque volte), continua a pensare che il meglio delle maratone al mondo stia tra Svizzera (Davos e Interlaken; Biel/Bienne quanto alle 100 km) e Germania (Berlino, Amburgo). Nella vita pubblica insegna italiano all'università, nella vita privata ha moglie, due figli e tre nipoti (cifra che potrebbe ancora crescere). Ha scritto una decina di libri (generalmente noiosi) e qualche centinaio di saggi scientifici; tesserato per l'Ordine giornalisti dal 1980. Nel 1999 fondò Podisti.net con due amici podisti (presto divenuti tre); dopo un decennio da 'migrante' è tornato a vedere come i suoi tre amici, rimasti imperterriti sulla tolda, hanno saputo ingrandire una creatura che è più loro, quanto a meriti, che sua. 

12 settembre - … Me l’ha fatto notare una podista venuta fin da Berlino per camminare qua: è la prima volta che al termine della gara c’è un tavolone ricco di prelibatezze (metto personalmente sul podio l’uva dai grandi acini succosi; foto 53), cui tutti possono attingere, senza l’obbligo di prendersi il sacchetto con le cibarie e smammare il prima possibile. D’accordo, non eravamo tantissimi (poco più di un centinaio secondo le cifre diramate), essendo la partecipazione limitata dalla vicina e ‘ufficiale’ gara di Borzano dove pare si sia sfiorato il mezzo migliaio di presenze; dunque era facile mantenere il distanziamento all’interno del bellissimo cortile nel Borgo di Casa Maffei (foto 10-11, 14) dove si erano svolte tutte le operazioni di iscrizione (5 euro, senza preiscrizioni o data di scadenza, e senza pacco gara). D’altronde, sugli spalti degli stadi, in questa giornata, la mascherina sembra un oggetto vietato (la porterà l’1% dei tifosi, oltre tutto a contatto strettissimo), dunque ancora una volta non saremo noi podisti gli untori della prossima inevitabile “ondata”. Notevole qui da noi anche la presenza di ampie e confortevoli toilette in muratura, dove non si è mai dovuto fare la fila: negli stadi invece, non saprei come sono messi.

Partenza, in gruppo, con 5 minuti di ritardo perché le iscrizioni si erano protratte (ultimo o quasi era arrivato il Cuoghi della Cavazzona in foto 19, raccontando che la sua auto si era diretta in automatico verso Borzano, ma quando lui se ne era accorto aveva invertito la marcia e puntato su Roteglia).

Percorso mai collaudato in gare, sebbene qualche suo pezzo più corribile facesse parte di una classica camminata preserale dello stesso paese, grosso modo in questa stagione; e soprattutto, noi foresti ci siamo meravigliati arrivando, dopo 3 km e mezzo, e tornandoci dopo 8 km se avevamo scelto il giro lungo di 15 km (+880 D, che però il mio Gps riduce a 620), in un agriturismo intorno a quota 400 che era la sede di una “camminata di San Valentino”, più o meno all’epoca della festa di S. Anna. Gradito ritorno, augurale per futuri eventi: notevole che Italo (fotografo ‘della concorrenza’, ma pur sempre un amico), dopo averci fotografati in partenza, sia già arrivato lì per ulteriori scatti (foto 3, poi 26-30).

Diciamola tutta: non siamo né sulle Dolomiti né perlomeno sul Monte Valestra che si staglia nelle vicinanze: qui si corre sui calanchi, in parte sventrati dall’industria delle piastrelle, e dove i tipi di terreno a fatica permettono la nascita di arbusti e fiori (però mi sorprendo a vedere parecchi bucaneve, se sono davvero loro, nel sottobosco). Si sta quasi sempre su stradette bianche, a volte sassose, che la seccaggine ha cosparso di crepe, capaci a volte di trasformarsi in tagli che inducono frane. Giunti in quota si hanno belle visioni, ad esempio su quella “big bench” (mega panchina per salire sulla quale ci sono dei gradini) verso il sesto km; oppure sul Monte Stadola, circa 440 metri (cioè 250 metri più su della partenza-arrivo), dove pare di riconoscere (a me e al fido Paolo Giaroli) il tracciato di una antica camminata di San Valentino, che facevamo in senso inverso, talora imbattendoci in capre al pascolo.

Il percorso è ampiamente segnalato da bandelle, con una piccola defaillance (parlo sempre a nome dei foresti) verso il km 13/14: qui, un cartello non ufficiale (?) informa che tenendo il centro-destra si arriva al Pilastrino (che dà il nome alla gara), una chiesetta commemorativa su un cocuzzolo; ma i pendagli biancorossi portano a sinistra, in direzione di un’altra chiesa (“Maestà Nera”) che ci attira anche col suo scampanare. Risultato: chi segue il percorso ufficiale non passerà né dal Pilastrino né dalla Maestà Nera (che resta sopra); solo i più curiosi o i meno agonisti fanno la deviazione turistica, che avrei fatto anch’io se avessi conosciuto la topografia locale.

Pazienza, mi accontento di foto panoramiche, prima di scendere, lungo una stradetta con uno strano e fastidioso acciottolato antisdrucciolo, di nuovo verso Roteglia (eccola apparire in foto 52): dove c’è di nuovo Italo a fotografarci, quasi tutti con una gran fiacca addosso, salvo signore pimpanti come quella delle foto 24 e 53-54, che -come diceva Carlo Porta - “desdott in fira [bè, qui sono 15] e fresca cum un oeuv”.

Arrivano Giaroli e le sorelle Gandolfi (foto 6 e 13), arriva Cuoghi, arriva il nutrito gruppetto della Guglia di Sassuolo capitanato dalla signora Emilia e dalla sua seconda mamma Silvana. Si suda (verso le 11 stiamo intorno ai 28 gradi), ci si accovaccia sul prato, si cerca l’ombra, sorseggiando cola o succhi di frutta e sgranocchiando la squisita uva di cui sopra. La festa è finita, oppure siamo solo agli antipasti della festa grande della Liberazione?

SERVIZIO FOTOGRAFICO - 11 settembre 2021 – Nel ventennale esatto della tragica ricorrenza statunitense (ma ricordo che anche quel giorno dalle nostre parti si corse, esattamente alla sagra di Ganaceto), il podismo reggiano dà un altro segno di vita, re-inaugurando la stagione delle non competitive con una corsetta molto vicina a quella classica di Villa Curta che si svolgeva tradizionalmente ai primi d’autunno: siamo sotto l’egida Uisp, ma ci chiedono ugualmente il greenpass (la parola è talmente balorda che il correttore di word ti segna errore): anche perché l’ingresso nel recinto dà diritto a visitare l’annessa mostra dei caseifici reggiani, ricca di giochini e animazioni per bambini quanto priva di assaggini: per fortuna, qualche pillola di formaggio sarà inserita nel pacco gara, ricco all’inverosimile se si pensa che la quota d’iscrizione è quella dei vecchi tempi, 2 euro.

Siamo nell’aeroporto di Reggio, meglio noto in Italia (da quando Ligabue ci fece un concerto) come Campovolo, a breve distanza dai vecchi Campi Csi e dalla partenza di una maratonina competitiva che andava verso la Bassa. Qui dentro sta la pista per la scuola di ciclismo “Giannetto Cimurri”, usata anche da podisti come l’ing. Tallarita per i suoi 1000 km in 10 giorni, e da altri per competizioni con risultati meno invidiabili, salvo le ‘tacche’ elargite a buon mercato senza timore di ridicolo.

L’identificazione del greenpass è fatta molto seriamente, con lo scanner e il programma apposito (mentre in alberghi e ristoranti al massimo lanciano un’occhiata distratta); fin che non si corre va indossata la mascherina, e se non bastasse dobbiamo anche compilare l’autocertificazione. Dopo di che ci danno un grosso pettorale con l’ordine di indossarlo, quasi fosse un lasciapassare: e almeno questo ben venga, se riuscirà a frenare l’andazzo di “quelli che… l’ho lasciato in tenda/in auto/nella borsa perché a portarlo si perde”, e quelli che “mè a cur agratis”.

1° Festival dei Caseifici


Contorno di lusso, dallo speaker Morselli a tutti i fotografi della zona, compreso Nerino che ha in simpatia la torre di Pisa, a vedere da come ci ritrae. Il giro è di 5,150 km in senso antiorario, che si può fare una o due volte, attorno al Campovolo, in buona parte su strade sterrate, anche attraverso una sorta di boschetto naturale,  per finire sul soffice prato, innaffiato anche adesso, dei contorni aeroportuali.

Tanta bella gente e almeno un paio di podiste decisamente carine, come la bionda longilinea che mi sorpassa impietosamente nel secondo giro e taglia il traguardo ritratta nelle foto 172-174 di Morselli. E guardate quel buongustaio di Domenico Petti come presenta la gara con la foto 2, e poi insiste tra la 126 e la 136.

Tanti reggiani (dei due cugini Giaroli uno corre e l’altro fa lo sbandieratore), e pure molti modenesi, (“tant da nuèter an gh’è gninta”: bè, sabato e domenica prossima si riparte, addirittura  con un trail tosto e poi una 10 km nel comune capoluogo, sebbene in zona alquanto ‘ariosa’), compreso Giangi, la famiglia Bandieri da Formigine e l’imperdibile Cuoghi della Cavazzona che arriva immancabilmente in ritardo.

Ristoro (acqua in tetrapak) a metà e all’arrivo; e se qualcuno osa abbandonare il campo senza aver ritirato il pacco gara (maglietta, berretto, formaggio, acqua) , viene richiamato dagli organizzatori: io che l’avevo messo in borsa e stavo uscendo, sono stato invitato a prenderlo, ma ovviamente ho spiegato il perché della astensione: non è che sia no-pakx, ma la seconda dose non mi spetta!

Partecipazione non ancora ai livelli pre-covid: siamo forse a metà rispetto alla ricordata Villa Curta, ma, correggendo un po’  De Gregori, qualcosa si muove tra le pagine chiare e le tante ancora scure, e forse presto i nostri piedi potremo spedirli a indirizzi nuovi.

Lunedì, 06 Settembre 2021 15:06

Una Marcialonga memorabile e di buon augurio

5 settembre – I lettori sono stati informati tempestivamente sulla gara dal comunicato ufficiale

http://podisti.net/index.php/in-evidenza/item/7651-moena-cavalese-tn-19-marcialonga-running-coop-nel-segno-del-kenya.html

cui abbiamo aggiunto qualche foto personale, e adesso snoccioliamo le impressioni, come al solito, dal di dentro.

La cifra di “1300 runners” data dagli organizzatori sembra un po’ esagerata, dato che l’ordine d’arrivo annota 764 arrivati individuali e 47 staffette da 3 componenti; anche ammettendo una percentuale esagerata di ritirati o ftm, non credo si arrivi al migliaio (e d’altronde gli arrivati del 2019 risultarono 812).

Con tutto ciò, a memoria non ricordo, nelle partecipazioni a corse tra il settembre del 2020 e questa tarda estate 2021, tanta gente per strada: e va notato che questa prima domenica di settembre ha concentrato, più o meno nel raggio di un centinaio di km, una serie di gare prestigiose (basti citare la Cortina-Dobbiaco, abbastanza similare come tipologia, e qui spostata rispetto alla collocazione temporale originaria).

Moena è ancora affollatissima, e lo merita: l’albergo suggerito dall’organizzazione (comodo, ottimo, non troppo caro rispetto ai servizi offerti; e guardate il panorama dal mio balcone alle foto 10-11) era pieno, non specificamente di podisti; ma bastava passeggiare per le piazzette del centro, al sabato, per riconoscersi fra colleghi, semmai perduti in quest’ultimo anno e mezzo, e felicemente recuperati in nome della Marcialonga: ammirate per esempio la foto 9 e invidiatemi pure per il ‘contorno’. Lo stesso accadeva al traguardo di Cavalese, dove si davano gli ultimi ritocchi alle strutture d’arrivo (foto 1-4, 6-7) collocate simbolicamente sotto lo storico “Banco della Ragione”, il luogo dove si amministrava la giustizia: qui non si bara, il chip ti dà all’istante tempo e piazzamento (e la benevolenza degli organizzatori consentirà qualche decina di minuti di ‘comporto’ rispetto al tempo massimo).

La consegna dei pettorali, a Moena, avviene nella massima tranquillità, in adiacenza a una mostra sulla Grande Guerra (che qui, al passo San Pellegrino, vide contrapposte le trincee austriache e italiane), e ad una all’aperto sui 50 anni della Marcialonga sciistica; ovviamente col rispetto di tutti i protocolli. Addirittura nel giardino che fiancheggia la partenza, alla domenica mattina è possibile accedere solo con greenpass e mascherina (foto 18).

Partenza scaglionata nell’arco di un quarto d’ora, e c’è tutto il tempo per spogliarsi, corricchiare nei paraggi, entrare nel recinto sacro previa misurazione della temperatura (35°6 la mia; come al solito, dico che dovrebbero escludermi per pericolo di … crollo), consegnare le sacche per il traguardo; poi ci si porta sulla linea del via e si parte quando si vuole perché il tintinnio del chip ti rassicura che avrai il tuo real time, l’unico che dovrebbe contare anche per il futuro nelle gare di massa.

Molto precise le indicazioni degli organizzatori: la gara misura 25,780 (dieci metri di differenza rispetto al mio Gps!), dai quasi 1200 della partenza scende fino agli 860 del km 22, poi risale ai 1000 di Cavalese: dunque gara con un dislivello in discesa di circa 350 metri, ma con 140 di salita, soprattutto nell’ultima parte, ma assaggi già da Predazzo dopo 8 km.

Predazzo (terminal del mitico trenino della Val di Fiemme, da Ora) sarà l’unico paesone attraversato e ammirato per le strade del centro (mi commuovo vedendo la caserma della Guardia di Finanza dove un mio zio, allora militare diciannovenne, fu fatto prigioniero e buttato nei lager tedeschi l’8 settembre 1943, quando Badoglio e il re eroicamente scappavano); poi si va stabilmente su piste ciclabili, ben tenute e spesso al fresco del bosco, tenendo il lato sinistro della valle (mentre la leggendaria strada delle Dolomiti rimane sulla destra). Primo ristoro dopo 7,5 km, mentre i successivi 4 o 5 seguiranno a distanze più ravvicinate: acqua fresca, bevanda isotonica, gel, barrette o muesli o altre sostanze integrative sono più che sufficienti.
Ci sono anche vari pacemaker: chiacchiero per un km o due con quello dei 6/km, un vicentino con cui è bello parlare di Ultrabericus e di Sei comuni e non di solo podismo. Poi lo esorto ad andare via, perché gli sto rovinando la media…: alla mezza mi ‘schedano’ per 6:01/km, poi peggiorerò assai… sebbene la salitaccia finale, ‘corsa’ (per modo di dire) agli 8 e passa a km, mi permetta di raggiungere vari colleghi, specialmente di pianura (moltissimi gli emiliani e lombardi della Bassa) che fin lì mi erano stati davanti.

Ma nessuno sa veramente chi è davanti e chi dietro, data la divaricazione delle partenze. Tre controlli chip, di cui è significativo quello al 21,097, sia per darti il tempo sulla ‘mezza’, sia per farti vedere quanto vali sul piano, prima della salita verso Cavalese, un 150 metri verticali grosso modo lungo l’asta della funivia del Cermis, perlopiù sterrati e con un passaggio suggestivo nella galleria del citato trenino azzurro (che, mi raccontavano in casa, nel 1955 fece una fermata straordinaria perché al Fabio quinquenne scappava la pipì, e a bordo non c’era il wc…).
All’arrivo ci sono due tappetini: uno, un centinaio di metri prima, che consente allo speaker di individuarci e chiamarci tutti per nome; e l’altro finale, grazie a cui l’intertempo ci farà vedere a che media sapevamo reggere appunto per gli ultimi cento metri…

Percorso obbligato per l’uscita, dopo la medaglia caratteristica (due paia di sci verdi incrociati, mi sembrano: era lo stesso segno sull’asfalto delle strade), messa al collo e non consegnata in busta chiusa come purtroppo ci avevano abituato; sacchetto coi viveri al posto del tradizionale ristoro finale – e di fianco una fresca fontanella consente di bere e ripulirsi un po’ -, infine riconsegna delle sacche. C’è modo di ritrovare le splendide colleghe salutate in partenza (dalle foto 21-22 alle 24-26, con l’intermezzo del sorpasso impietoso documentato dalla 23); e poi, per chi vuole, c’è l’approdo al palasport distante qualche centinaio di metri, come l’ampio parcheggio gratuito.

Ci spargiamo nei ristoranti e pizzerie e gelaterie della zona, riconoscendoci di solito per le scarpette che ancora indossiamo (“ah, con te – mi dice un biondino nel tavolo vicino– abbiamo combattuto nell’ultimo km, ma io ero morto!” – beh, io più morto di te, visto che hai vinto tu, addirittura per 4 minuti secondo il real time), scambiandoci i primi pareri, tutti entusiasti.

Per me era la prima volta, per altri l’ennesima: se ci si ritorna, segno che questa Marcialonga ha tutti i requisiti per piacere.

 

 

2 settembre – Sassuolo ci ha riprovato a cinque settimane dalla camminata di S. Anna del 26 luglio http://podisti.net/index.php/cronache/item/7488-sassuolo-una-sagra-di-sant-anna-finalmente-per-tutti.html

all’incirca sullo stesso percorso (però più breve e più stradale, oltre che con arrivo-partenza spostati di 400 metri verso il centro città), e con gli stessi organizzatori, da Pippo Ansaloni alla famiglia reale Franca & Evaristo addetti alle iscrizioni. Il volantino prometteva anche lo stesso speaker Brighenti, ma così non è stato: vedete il sostituto in azione nella prima tra le foto di Teida che ci accompagneranno (n. 14: https://podistinet.zenfolio.com/p396583255 ).

Tuttavia, gli organizzatori parlano di almeno 400 iscritti, alla solita quota sociale di 2 euro cui corrisponde una bottiglia di Lambrusco dello stesso tipo già incamerato a fine luglio (oltre a una mezza minerale in funzione di ristoro).

A occhio, di questi 400 almeno 300 erano camminatori (compresa gente che fino a due anni fa correva): basta rinviare alle foto teidine da 24 a 35; più a quelle di Nerino, efficiente testimone a latere, n. 18-41): segno che la lunga pausa ‘virale’ ha inciso pure sulle prestazioni e abitudini sportive.
I primi corridori nel senso pieno del termine provano a farsi largo alle foto 36-37, 43 131 (quando vedremo camminare il professor Gualandri significherà che siamo prossimi all’Apocalisse); e bravi quei genitori che accompagnano il figlioletto in corsa (146-7, 212 di Teida; Nerino 498, 824). Inappuntabile lo stile di Eugenia Ricchetti come appare dalle foto 261 di Teida e 582 di Nerino: e con lei ci sono altre donne, che sembrano più motivate dei maschi, come la bivincitrice della maratona di Pisa Monica Bondioli della foto di Nerino 399 (guardate anche la sgnaura Cecilia della foto 423 di Teida).

Ma perché parlare male di chi cammina? (o pure di quelli che fanno yoga, compresa magari la mia ex capitana affettuosa Cristina? Vedi foto Teida 52-59). Mentre il capoluogo sta fermo (è fresca la notizia della soppressione di una non competitiva fissata in città il 15; cosicché tutto settembre scorrerà senza una sola corsa a Modena, e solo una competitiva con label Fidal nella frazione di San Donnino il 19), a Carpi e Sassuolo si corre, certo senza pretese; ma almeno, la gente riprende ad affollare le strade e i parchi, sia pur sottoponendosi al rituale obbligato e dalla dubbia utilità della compilazione dell’ennesimo modulo, in cui barri un sacco di No, al cui posto basterebbe un Sì solo: “ho il greenpass!” (Nerino foto 12-15 documenta la paziente fila per riempire le scartoffie).

Questi moduli sarebbero utili se presupponessero un successivo tracciamento: cioè, io tra una settimana mi ammalo, comunico la mia malattia agli organizzatori i quali mandano un sms di allerta a tutti gli iscritti. Cosa che ovviamente nessuno farà. Resta solo l’intento vagamente punitivo: se saltasse fuori che io ho corso con 37°6 o nei giorni precedenti ero stato in eccessiva intimità con una sieropositiva, potrei essere incriminato per false dichiarazioni o attentato alla salute pubblica. Lo trovate realistico?

Ciò premesso, il giro è totalmente in centro di Sassuolo, con partenza-arrivo nei pressi della piazza centrale dove si svolgeva la Sassuolissima classica, competitiva e no (prime 3 foto di Teida, poi 522-529 per l’addio notturno); e passaggi di poche centinaia di metri per i due parchi adiacenti al centro (chissà perché, si è preferito correre in gran parte all’esterno dello stesso parco Vistarino – eloquente la foto 39 - in cui poche settimane fa si era entrati); tracciato di 2,4 km, percorribile da una a quattro volte, con partenza libera tra le 19 e le 20.
Che altro dire, rispetto a quanto documentano le foto presenti in loco, mostrando se non altro che nei giri dal secondo in avanti (da foto 290 di Teida in poi; diciamo, dopo la prima mezzoretta di gara e fino a tarda sera) cominciano ad andare in maggioranza quelli che sollevano i piedi? Uno dei podisti fedelissimi, il Cuoghi della Cavazzona (foto 55 e 483 di Teida; 309, 653, 904 di Nerino, da cui appare che ha corso anche col buio), mi ha chiesto se torneranno mai le caratteristiche tende delle società, al cui interno ci si spogliava e si lasciavano le borse.

Mah: alla periferia nord di Sassuolo (vedere ultime foto di Teida) c’è l’annuale sagra delle Casiglie, che un tempo segnava la ripresa del podismo dopo le ferie; a Modena e a Bologna città ci sono le edizioni-principe (addirittura quella nazionale) del festival dedicato al Giornale-che-non-esiste-più: ma di gare podistiche abbinate non si sente parlare. Allora, se andiamo avanti così, gli ho risposto (e mi riferivo non al piccolo mondo del podismo, ma alla gestione in generale dell’epidemia, tra terrorismo e disinformazione, tra ordini draconiani e contrordini quasi quotidiani, tra greenpass prolungati a un anno e altri che rilasciati a giugno risultano già scaduti secondo gli scanner), le tarme o i topi faranno in tempo a rosicchiare tutte le tende e la voglia di socialità degli ex-podisti; e come diceva Gadda, l’erba che ricrescerà, la vedrà il cavallo che campato sarà.

VIDEO

 

Reduci, come siamo, da Olimpiadi elefantiache dove ad ogni edizione vengono aggiunti gli sport più strani, a volte strampalati, magari per compiacere la nazione ospitante concedendole medaglie in specialità che coltiva solo lei, appare straniante reimmergersi nelle Olimpiadi della rinascita, quelle di Atene 1896 dove gli sport rappresentati furono nove in tutto, con 241 atleti partecipanti. Alla gara entrata nella leggenda, la maratona (per essere più esatti, il Marathonios dromos, la “corsa di Maratona”, località che fu anche il giro di boa della gara di ciclismo, partita e arrivata ad Atene) presero parte meno di venti corridori, quasi tutti greci e fortemente favoriti dall’organizzazione, che desiderava un vincitore di casa: il quale fu, come tutti sanno, il pastore Spyridon Louis, agevolato anche dal ritiro dell’australiano Edwin Flack in testa fino a 5 km dall’arrivo.

Ma alla gara avrebbe voluto e dovuto partecipare anche un italiano, l’unico italiano nella mancanza assoluta di una spedizione azzurra: Carlo Airoldi, varesino di Origgio alle porte di Saronno, nato nel 1869 dunque ventisettenne all’epoca dei Giochi. Non gliela lasciarono correre, e questa dolorosa ingiustizia fu ricordata e commentata da Gianni Brera in un articolo scritto nel 1956 per le Olimpiadi di Melbourne, a 60 anni dal fattaccio; dopo Brera, in tutte le storie italiane delle Olimpiadi c’è almeno un capoverso dedicato ad Airoldi, su cui già nel 2005 Manuel Sgarella aveva pubblicato un libro (La leggenda del maratoneta. A piedi da Milano ad Atene per vincere l'Olimpiade, Varese, Macchione Editore, 2005), fondato su carte e testimoni d’epoca, poi ripresentato in formato Kindle nel 2014 col titolo cambiato in Il testamento del maratoneta: una storia vera.

Nell’anniversario della morte di Airoldi (18 giugno 1929) si è riparlato della vicenda, ad esempio nel sito https://giocopulito.it/lincredibile-impresa-di-carlo-airoldi/, e soprattutto è uscito il libro di cui parliamo, Il trucco è resistere (Piano B Edizioni, luglio 2021, 139 pagine, 13 euro) che si presenta come “romanzo”, alternato tra parti scritte in prima persona da Airoldi stesso ed altre in terza persona, ma è saldamente ancorato ai documenti, in particolare le corrispondenze apparse sul giornale sportivo “La Bicicletta”; e si chiude col citato articolo di Brera “Per 15 lire non fu ammesso alle Olimpiadi” (pp. 129-135).

L’autore, perugino poco più che quarantenne, non è nuovo alla scrittura impegnata, e rende il racconto avvincente grazie a continui salti cronologici rispetto all’evento topico attorno a cui ruota il tutto. Comincia mostrandoci Airoldi durante il viaggio di ritorno dopo la vittoria nella Milano-Barcellona (1050 km fatti in sedici giorni!) nel settembre 1895, vittoria grandiosa anche perché nell’ultimo km, superato il marsigliese Louis Ortègue che stramazzò a terra, se lo caricò in spalla e tagliò il traguardo insieme a lui. In quei giorni nacque l’idea di partecipare alla neonata olimpiade ateniese; l’autore però nel secondo capitolo ci trasporta al “dopo”, al ritorno in Lombardia dopo la delusione ateniese, al lavoro in fabbrica mal sopportato, e alla voglia di evadere con le corse, “finché il mio corpo mi dice che ce la faccio”.

Si passa poi, di nuovo in prima persona, al capitolo più lungo, dedicato al “prima delle Olimpiadi”, alla conquista del giornale “La Bicicletta” come sponsor e premuroso accompagnatore a distanza nell’avventuroso viaggio a piedi (salvo un tratto in nave, fortemente suggerito causa la pericolosità del tratto albanese). Già qui echeggia ossessionante la frase che dà il titolo al libro: “Bisogna saper resistere. Correre più veloce degli altri non conta niente se non sai resistere, è solo questo il trucco” (p. 10, poi 39).

Più o meno 12 ore di corsa al giorno, in una primavera che non si decideva a sbocciare, per completare in tempo utile i 1300 km da Milano ad Atene, sulle strade-non strade di allora: dormendo nei fienili, o all’addiaccio, più raramente negli alberghi consentiti dai pochi spiccioli in tasca (incrementati un poco dalle scommesse vinte per via, ovviamente sfide in corse di resistenza) o messi a disposizione dai pochi italiani incontrati lungo l’itinerario; e mangiando quello che capitava (“pane e filsetta, pane e formaggio, pane e frutta” secondo le parole di Brera, che da pavese citava la filzetta o “cacciatore” o salamino di Varzi), molto raramente un pasto regolare: ad Atene arriverà dimagrito! E dopo aver dovuto lottare anche coi lupi o cani inselvatichiti (ad uno taglia la gola ricordandosi della mamma che “con uno spito infilza il collo di un’oca”), e schivare i banditi di strada. Tutto inutile: la sezione si chiude con la gelida accoglienza al comitato olimpico, che lo sbatte fuori con la frase “Lei è stato pagato per una vittoria, quindi è senza dubbio un corridore pedestre professionista”, “Accettiamo soltanto atleti non professionisti”.

Cosa fossero queste povere gare, in cui il vincitore incassava grossomodo quanto gli bastava per le spese di viaggio, lo dice il capitolo seguente “Gli anni di mezzo”; poi si torna di nuovo al fatale 10 aprile 1896 della maratona, quando tra sogno e realtà Airoldi “corre” anche lui, a fianco di Spyridon, col proposito di superarlo all’ultimo km come con l’altro Louis a Barcellona; ma si risveglia appena in tempo per assistere all’arrivo del vincitore nello stadio Panathinaiko e lanciargli una sfida, che non sarà mai raccolta (a differenza di quello che Dorando Pietri ottenne dodici anni dopo). In realtà, come raccontato da Gianni Clerici nel 1996, Airoldi fece quello che avrebbero fatto molti di noi: prese il via senza pettorale, ma fu bloccato a forza finendo addirittura in galera per un giorno.

Rientrato in patria (con un soggiorno anche svizzero), dopo aver vaneggiato, quasi un secolo prima di Govi, una maratona autogestita per battere il record di Spyridon, si ridusse a vincere corse e scommesse da due soldi (anche bizzarre per non dire di peggio: Buffalo Bill non accettò un’altra sua sfida, uomo contro cavallo), emigrò in Brasile tornandone presto e male in arnese. Qui il racconto torna alla terza persona, per chiudersi poi col capitolo finale ancora narrato dal protagonista, “Non ero più io…”. Giuridicamente, avrebbe potuto partecipare alle successive Olimpiadi, di Parigi e St. Louis, ma non lo fece: anche in gara non era più imbattibile. Si sposò, fece tanti figli, e rimase un altro poco nello sport come manager di ciclismo e venditore di biciclette, oltre che organizzatore di gare.

Morì appena sessantenne, “prima d’arrivare vecchio… quando non puoi più resistere è giusto andare”. A noi lettori resta il rimpianto, e magari anche un po’ di rabbia, per quello che poteva essere e non è stato (un italiano primo campione di maratona!), in ossequio alla concezione snobistica dell’epoca, quando solo i ricchi avevano possibilità di fare “diporto” (sport), mentre i proletari dovevano sporcarsi le mani coi soldarelli se volevano almeno comprarsi le scarpe da corsa.
NdR. Oggi, però, siamo all’eccesso opposto: sono appena tornato dai campionati regionali Fidal emiliano-romagnoli, dove a correre i 5000 eravamo meno di trenta, tra uomini e donne. Forse perché in palio non c’era neanche un salamino, agli assenti è convenuto piazzarsi in qualche gara su strada.

27 agosto – In concomitanza con la sagra della Madonna dei Ponticelli (santuario mariano ai confini dei comuni di Carpi e Novi, ‘specialista’ nel ridare la parola ai muti tra cui – non scherzo – il mio prozio Remo), la vicina parrocchia di San Marino ha riproposto la camminata semicampestre che l’anno scorso era saltata per le note ragioni.

Anche quest’anno la prudenza non è stata mai troppa, si è dunque evitata la partenza di massa lasciando la finestra di un’ora (18-19) per mettersi in strada; all’iscrizione bisognava compilare l’ormai consueta e non ancora desueta autocertificazione, che in teoria servirà per il tracciamento; non esisteva il ristoro finale (un tempo celebre per le fette di anguria generosamente elargite), in cui vece è stato consegnato un sacchetto con cracker e acqua minerale (poi nei pressi si poteva acquistare il tradizionale gnocco fritto, senza però poter restare a cena come pareva dal volantino).

Abbastanza nuovo mi è parso il tracciato, che ancora una volta non passava dal santuario (che abbiamo avvicinato a non meno di 500 metri solo nella parte finale), ma si snodava addirittura in direzione opposta, a sud verso verso Carpi, seguendo l’argine del canale Lama di San Marino fino alla centrale e al ponte della Pratazzola, dove si passava il canale per ripercorrerlo nell’altro senso, verso nord, incluso un breve passaggio per un boschetto, riservato a quelli del percorso lungo (quantificato in 8 km, in realtà 7,200; gli altri percorsi erano dati di 4 e 6,8 km).

In questo timido segno di ripresa, quasi tre mesi dopo l’altro squillo lanciato, da queste parti, al Club Giardino, ci si è consolati rivedendo tanti amici che la lunga parentesi virale sembrava aver confinato ciascuno a casa propria: così alle iscrizioni Giorgio Diazzi (che ha riconfermato la promessa fattami vari anni fa, che “quando rifaremo la maratona di Carpi sarai il primo a saperlo” – se avrò ancora vita, aggiungo!) e Gamba ed legn Danilo Sala, grandissimo fondista ai tempi belli, e che rimane l’unico albergatore a San Marino in onore alla moglie Lina, che però la dasvin d'Alvree. Abbiamo rievocato quella cena a base di rane e pescegatto, sia in umido sia fritto, che sarebbe ora di ripetere, magari con la Marisella e con l’Ilva da Fossoli, che abbiamo ritrovato per strada, insieme a Sergio, a Salardi e agli altri carpigiani che sono accorsi in queste contrade, riportandovi una vita che mancava da tanto.

Presente anche il collega Giuliano Macchitelli, di Modenacorre, col “suo” fotografo Italo Spina, i cui scatti si sono aggiunti a quelli di Nerino Carri, che ha fatto tutto il giro in compagnia di Paolo Giaroli "il cugino". In tutti c’era la speranza che la fine estate porti un po’ più di regolarità in queste iniziative, come il calendario di settembre comincia a lasciar trasparire.

22 agosto –Anche quest’anno, come nel 2020, la “5 Passi in Val Carlina”, competitiva e non competitiva, era stata da tempo annullata, come capitato a quasi tutte le altre corse sotto l’egida del coordinamento bolognese. Ma come l’anno scorso, Federico Pasquali, organizzatore da anni della gara intitolata al papà Giorgio, ha tenuto duro ed ha invitato chi voleva a presentarsi in piazza a Lizzano per i soliti due percorsi, di 9 e 17 km circa (quello lungo era stato leggermente limato nella parte finale, evitando il centro di Vidiciatico con l’attraversamento di un parchetto pubblico).
Questa cocciutaggine a fin di bene mi è sembrata anche un estremo tributo ad Angelo Pareschi (già presidente del Coordinamento di Bologna, e di cui questo sabato si sono tenute le esequie), che, anche da ex, privato cittadino osteggiato dalla nuova dirigenza “per danno d’immagine” (ma come si fa a danneggiare l’immagine di un buco nero?), durante l’ultimo anno e mezzo si era adoperato per garantire un minimo di attività ludico-motoria ai compatrioti: e la presenza di Claudio Bernagozzi tra gli organizzatori di Lizzano è un tratto d’unione tra chi ci ha lasciato e chi continua. Da notare che, a parte una non competitiva agli estremi limiti della provincia di Piacenza, questa di Lizzano era l’unica corsa del week end in tutta la regione Emilia-Romagna.
La partecipazione non è stata ovviamente rilevante: l’iscrizione era ad offerta libera da devolvere in beneficenza, e dava addirittura diritto a un pacco gara oltre che al sorteggio di premi a sorpresa. Si partiva in una finestra tra le 8.30 e le 9, ma anche prima c’era chi aveva preso il via, confidando nell’egregia segnatura del percorso che non ha mai suscitato dubbi anche in mancanza di sbandieratori in qualche punto cruciale (personalmente ne ho incontrati due, ma anche dove non c’erano esseri umani, le frecce arancioni sull’asfalto e i vistosi cartelloni appesi agli alberi erano chiarissimi).
Il percorso lungo, dal dislivello di circa 450 metri in su e in giù (dai 630 di Lizzano al punto più alto di La Cà, 930 metri tra i km 11 e 13), era equamente diviso tra asfalto e sterrato, col decimo km su un’autentica mulattiera (questa, ben difficilmente corribile ma esteticamente molto gradevole) che risaliva dal laghetto del Dardagna a Poggiol Forato. Da lì si riprendeva la strada asfaltata (a parte un ulteriore km su sentiero) che in senso antiorario sfiorava appunto Vidiciatico raggiungendo infine Lizzano attraverso la frescura di un bosco compreso nel Parco Corno alle Scale e frequentato da tanti camminatori.
Non erano previsti ristori, ma eravamo stati allertati sulla presenza ai lati del tracciato di numerose fontanelle pubbliche (ne ho contate almeno 5, oltre a quella monumentale nella piazza di partenza/arrivo) da cui sgorga un’acqua freschissima e ricercata dai tanti ‘civili’ che vanno lì a rifornire bottiglie e taniche. La stessa acqua freschissima che nei ristoranti locali è messa in tavola gratuitamente, con giusta nonchalance verso le minerali in bottiglia.
Dice un proverbio bolognese (e largamente diffuso anche altrove) Bisaggna tor quall ch’ Dio manda: speriamo che l’anno prossimo, il buon Dio e degli amministratori più avveduti ci restituiscano la pratica sportiva “come Dio comanda”.

19 agosto – Se ne è andato Angelo Pareschi, una delle figure più fattive ed umane del podismo bolognese, che fino al 2015 aveva guidato come presidente del Coordinamento podistico provinciale. Non era vecchio (74 anni non ancora compiuti), ma il cuore, che già l’aveva fatto tribolare negli ultimi tempi, l’ha tradito in maniera definitiva.

In campo nazionale credo che fosse conosciuto soprattutto come organizzatore (insieme all’amico, quasi un fratello, Claudio Bernagozzi) della Bologna-Zocca, la classica 50 km della Sagra di Bologna, che dal 2010 aveva fatto rinascere come Bologna-Savigno, senza deporre del tutto le speranze di riportarla, un giorno, al percorso originale.
Nel frattempo, in questo travagliato biennio nel quale il Coordinamento ufficiale sembrava liquefatto, si era dato da fare per consentire agli appassionati delle non competitive di muovere le gambe, in allegria e in totale sicurezza. Eravamo stati con lui, nella sua patria di Castello d’Argile, l’11 ottobre scorso, per una camminata di cui restano le foto di Teida Seghedoni

http://podisti.net/index.php/component/k2/item/6580-11-10-2020-castello-d-argile-bo-camminata-so-e-zo-par-l-erzen.html

dove Angelo appare nelle foto 29 e 30, insieme a Bernagozzi nelle foto 1, 300-302.
Una di queste immagini appare anche nella foto-copertina della cronaca

http://podisti.net/index.php/cronache/item/6585-castello-d-argile-bo-camminata-so-e-zo-par-l-erzen-riparte-anche-bologna.html

che ovviamente si occupava anche di chi aveva così ben organizzato:

…si è tornati a correre ufficialmente, nel pieno rispetto (addirittura eccessivo) delle norme: preiscrizione obbligatoria fino a due giorni prima, autocertificazione da lasciare agli organizzatori, misurazione della febbre dopo di che non puoi più uscire dal recinto, niente spogliatoi, pettorale numerato da tenere addosso (lontano ricordo del podismo non competitivo di 40 anni fa), tariffa calmierata di 2 euro di fronte a un pacco gara comprendente bottiglietta d’acqua e sacchetto di biscotti che è consegnato solo all’arrivo, con preghiera poi di allontanarsi velocemente verso casa o le proprie auto. Il tutto sotto la regia di due amici di Alessio Guidi, anzi quasi due “anime nere” per usare il linguaggio di un plurisqualificato fautore del fine-pena-mai: Angelo Pareschi, a lungo presidente del Coordinamento bolognese, che per una volta si distoglie dalla nuova attività di dirigente delle “5,30” tornando nei suoi luoghi d’origine; e Claudio Bernagozzi, già accomunati nella leggendaria Bologna-Zocca il cui nome tornava sul volantino d’oggi (e vedeteli meglio nelle foto iniziali di Teida, poi nella 300).

Dopo questa gara e i nuovi lockdown, Pareschi e Bernagozzi avevano fatto ripartire di nuovo le camminate, quasi sempre con epicentro nella stessa zona: abbiamo notizia di tre raduni nella vicina Argelato del 16, 23 e 30 maggio, e di altri a Volta Reno, il 6 giugno, seguito il 13 da una “Passeggiata ecologica lungo il fiume” di nuovo a Castello d’Argile, con oltre 250 partecipanti; e ancora a Volta Reno domenica scorsa. Stava lavorando per nuovi raduni ad Anzola, Argelato e Lovoleto.

Dall’avviso di una di queste gare traggo le parole finali, firmate da Pareschi:

 “Non è richiesta quota di iscrizione ma si potrà volontariamente effettuare una donazione a favore dei bambini della Bielorussia.
Abbiamo tutti bisogno di ritornare a camminare in allegria ed in compagnia. Se ognuno farà la sua parte, faremo il bene di tutti”.

Perché aldilà dell’attività di organizzatore e coordinatore, Angelo si era speso fin dall’inizio per le vittime di Chernobyl: allestendo campi di lavoro là, e favorendo i soggiorni in terra bolognese dei bambini. Una volta mi raccontò, nel suo divertente eloquio con frequenti interiezioni bolognesi, di come era riuscito a farsi dare l’intera cucina (fornelli, pentolame ecc.) che un ospedale bolognese stava buttando, e a portarla di persona, su uno o più camion, all’ospedale (mi pare) di Pinsk.

Il funerale si svolgerà questo sabato 21, con l’estremo saluto nella camera ardente dell’ospedale di Bentivoglio (alle 9,30) e la messa funebre nella chiesa parrocchiale di Castello d’Argile: lì dove partiva una bellissima maratonina primaverile, con passaggio davanti alla monumentale chiesa di Mascarino dove la banda suonava, e al cui arrivo, in un fresco parco, trovavamo le torte preparate dalle signore argilesi.

La memoria di Angelo Pareschi si somma a quella di altri Grandi Vecchi, bolognesi ‘ariosi’, che ci hanno lasciato: l’ingegner Antonino Morisi, persicetano, già da tanto tempo ma senza che la sua figura sbiadisca; e il maestro Romano Montaguti, di origini collinari ma residente a Calderara, scomparso a 87 anni nello scorso febbraio.

In ricordo loro, e soprattutto di Angelo, domenica prossima a Lizzano in Belvedere si svolgerà, sotto forma di raduno spontaneo, un allenamento in montagna, con partenza dalle 8,30 alle 9, sullo stesso tracciato dei “Cinque passi in val Carlina”: gara ufficialmente annullata, ma che si terrà esattamente come l’abbiamo raccontata l’anno scorso

http://podisti.net/index.php/cronache/item/6418-lizzano-in-belvedere-bo-una-5-passi-in-val-carlina-dal-formato-libero.html

Con un motivo in più per esserci.

A tenere viva l’attenzione sulla 18^ edizione delle quattro serate cilentane, appena conclusa, arrivano ora le foto di Giuseppe Beneduce, compagno di squadra, nella CarMax Camaldolese, dei due primi arrivati (il primo assoluto, col numero 1, compare con l’autore nella foto 61), e lui stesso atleta di valore: 21° in generale, sesto degli M 40 (ma premiato come terzo di categoria dopo l'esclusione degli assoluti): lo vedete in varie immagini del suo album, dalla 29 e dalla 61 in poi, fino alla tenera posa della 184. https://podistinet.zenfolio.com/p246637757 

Le foto documentano esaurientemente, se vedo bene, tre delle 4 tappe: nelle prime settanta circa vediamo il ritrovo e le formalità iniziali nel paese di Piano di Vetrale, poi pochi scatti fuggitivi nella seconda tappa di Prignano; più oltre, dalla 77 in avanti, l’incanto panoramico di Trentinara seguito dall’arrivo a Capaccio (foto 121 e seguenti); e infine, dalla 143 in poi, le immagini dell’ultima tappa ad Aquara, con relative premiazioni e festa finale.

Molti dei protagonisti si potranno riconoscere: segnalo, nella foto 9 l’incontro con la coppia più celebre dell’insieme, i barlettani Gargano/Rizzitelli, e nella 36 il tenero atteggiamento dell’altra coppia Carolina Auricchio/ Gaetano Manzo; nelle foto 17-18, uno dei più giovani tra i compagni di squadra di Beneduce, Riccardo Forlenza 18° assoluto; nella 21 e 26, il saluto con gli amici-rivali dello Sporting Calore, Carmine Babbone ed Enzo Cavallo.

Dalla foto 29 comincia ad apparire una intrigante foto di Monica Alfano, terza assoluta, che ritroveremo nella 126 dopo l’arrivo della terza tappa a Capaccio. Intanto, gli scatti 38-43 documentano gli ultimi istanti prima del rompete le righe della prima tappa, e la foto 49 mostra l’arrivo allo stesso Piano di Vetrale di Rosario Pingaro.

Nella foto di gruppo 74, prima della partenza, spiccano Rosalia Pepe (pett. 61) e Rosmary Antico (pett. 55), che sarà seconda alla fine e reincontreremo nelle foto 123 dopo l’arrivo a Capaccio, e di nuovo alla 164 per la conclusione.

La terrazza di Trentinara, col meraviglioso panorama dai monti al mare, si accaparra un gran numero di foto di gruppo dalla 77 in avanti: nella 93 (come poi nella 154) spicca l’altra compagna di squadra Angela Abrunzo. La terrazza dei baci, nelle foto 101-105, è al momento popolata solo di uomini; le graziose signore sono altrove, come Anna Katia Di Sessa (foto 115) o Daniela Capo (foto 144) o Maria Bruno (154).

Ogni tanto si fa vedere l’indaffaratissimo presidente Funicello (foto 111, 150), altrimenti sempre impegnato a gestire ristori o trasportare coppe e magliette-premio. Dalla foto 143 ci siamo spostati ad Aquara, gara in diretta tv (l’operatore è nella 146). Alla fine è festa generale, coi gruppi uniti davanti allo scatto (173-174 ecc.), le premiazioni generose e le fette di anguria distribuite all’uscita, dove l’autore delle foto è piacevolmente atteso (184).
Le scarpe consumate possono appendersi all’albero che ha già dato i suoi frutti: per il Cilento 2022 ce ne saranno altre.

Vedi anche: http://podisti.net/index.php/in-evidenza/item/7564-copione-rispettato-alla-transmarathon-e-festa-generale-per-178.html

 

CLASSIFICA FINALE - 14 agosto – Nemmeno l’ultima tappa di Aquara, altra località di mezza montagna tra le cime e il mare di Paestum (e proclamatasi “città del vino”, malgrado il nome), ha cambiato gli esiti delle prime tre piazze maschili e femminili, chiaramente indicati fin dalla prima giornata. Basta ricopiare gli ordini d’arrivo delle altre giornate, cambiando solo i tempi, e l’ordine dei fattori quasi non cambia, così come le foto 22 e 31 del servizio assemblato da Roberto Mandelli).

A conti fatti, qualche piccolo sconvolgimento per le posizioni di rincalzo era stato registrato nella penultima tappa, la vertiginosa discesa, in parte trail, da Trentinara a Capaccio: nel mio risibile cimento per l’86° posto complessivo (!), ho dovuto soccombere per due minuti e mezzo al più settentrionale del lotto, Enrico Pantano da Saronno, che ha costruito il suo successo rifilandomi 3’16” in quella terza tappa, perdendo solo spiccioli nelle altre puntate (1 minuto e 40” in questa ultima). Meno male che nella lotta per il secondo posto di categoria, il mio concorrente, che nelle stesso discesone mi aveva affibbiato due minuti e mezzo, oggi che c'erano salite toste ha scatenato un attacco che si è esaurito al km 2, dopo di che... 2 sono stati i minuti di differenza a mio favore sotto lo striscione: degno commiato delle vecchie Kalenji Kiprun del 2017, dopo 10 maratone (due su percorsi trail), due ultra e altra robetta del genere.

Gara diversa dalle altre, e addirittura seguita in diretta tv, con tanto di elicottero-ponte, da un pool di tv locali (Lira TV: dovrebbe essere possibile recuperare via web la trasmissione su cui vedi foto 49): un circuito su tre giri, il primo dei quali diverso e più duro contemplando una salita fino al vecchio centro storico a 534 metri d’altezza, e gli altri due più abbordabili, con discese brevi e violente, ma salite dolci, con gli ultimi 400 metri quasi in piano, buoni per lo sprint. Lunghezza appena superiore agli 8 km, dislivello di 285 metri, dunque il più elevato dei quattro turni.

Ma fin dal primo giro il capofila solito, Giorgio Mario Nigro, transitava sotto il traguardo con netto vantaggio su un pool di 5-6 inseguitori, che successivamente si frazioneranno, materializzando alla fine il solito ordine d’arrivo: 1. Nigro in 30:30; 2. Vitolo a 32”; 3. Kamel a 1:25”.

Identico è il risultato finale del Giro: 1. Nigro in 2.10:37 (stando al mio Gps, i km complessivi sono risultati 37, con quasi mille metri di dislivello); 2. Vitolo a 2:24; 3. Kamel a 5:03.

Mini-sorpresa nella gara femminile, non per il successo della romena-romagnola Ana Nanu, 19^ assoluta in 37:32, ma per la piazza d’onore arrisa questa volta alla terza di sempre, l’amalfitana Monica Alfano, che ha preso solo 58” dalla prima, rifilando a sua volta più di un minuto all’eterna seconda, ma oggi terza, la cilentana Rosmary Antico.
Vantaggio però insufficiente a colmare il distacco in classifica generale, che dunque ripropone il solito ordine, con tre F 45 ai primi tre posti (foto 124): 1^ Nanu 2.38:57; 2^ Antico a 9:07, 3^ Alfano a soli 24” dalla seconda. Anche qui, risultano decisivi i 26 secondi che la Antico aveva inflitto alla collega nel discesone-trail di Capaccio.

Piccoli scambi di posizione nella varie classifiche di categoria (s’intende, non in quelle a partecipante unico), premiate secondo prassi all’imbrunire, in una piazzetta finalmente gremita, dal sindaco del luogo (foto 39-42), col capataz Funicello a predisporre le maglie di campione (spettacolare la vestizione in scena di Miss Sara Cetrangolo, prima F 40, foto 46) e Brighenti a telecomandare tutti i movimenti; mentre a bordo ring stazionava pronto a ogni evenienza l’altro masterchef capaccese (guai a dirlo capaccino altrimenti si rischia nu capaccione) Valentino Ristallo, che ha sempre collaudato i percorsi dal di dentro, giungendo alla fine 80° e quarto della sua categoria, appena dietro a Mister Nanu, alias Solerte Righini (foto 43-44), che si è accaparrato il cosiddetto ultimo gradino del podio.

In totale, i classificati a giri pieni, cioè dopo aver partecipato a tutte le tappe, sono 96; ma dietro di loro la graduatoria colloca, con penalità prestabilite, anche quanti hanno saltato una o più tappe. Con loro, si arriva al rispettabile numero di 178, non male viste le difficoltà dell’epoca.

Nel dopo gara, tra una fetta e l’altra delle angurie (o melloni d’acqua) offerte come ristoro finale, ho percepito soprattutto allegria ed entusiasmo, e – giuro – nessunissimo mugugno su questo o quel dettaglio. Gli unici accidenti erano indirizzati a Google Maps, che per Aquara suggeriva uno strano itinerario per stradacce d’infima categoria, mentre sarebbe stato così semplice prendere la statale per Roccadaspide, e da lì, nel ritorno, a Paestum dove Massimo Ranieri, monumento tra i monumenti, stava per cominciare il suo rituale concerto (ad Agropoli invece ci accontentiamo di Michele Pecora).
Il giorno che Google Maps ci dirà di buttarci giù, come i lemming o le pecore di Dindenault, dalla rupe di Trentinara, scommetto che qualcuno lo farà: ma non se la prenda col professor Funicello (foto 11-12), che ben si merita la scritta apparsa nella foto 13.

 CLASSIFICA FINALE

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